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Il Giappone che non c’è: Cerchi infiniti di Cees Nooteboom

È antico l’interesse di Cees Nooteboom per il Giappone, tantissimi i viaggi replicati negli anni. Dotandolo di una strepitosa copertina e di una preziosa postfazione

MILANO – È antico l’interesse di Cees Nooteboom per il Giappone, tantissimi i viaggi replicati negli anni. Dotandolo di una strepitosa copertina e di una preziosa postfazione che vanta la firma di Giorgio Amitrano, la casa editrice Iperborea raccoglie in Cerchi infiniti (Iperborea, 2017) una miscellanea di scritti dedicati al Sol Levante dello scrittore nederlandese, definito dal New York Times «una delle voci più alte nel coro degli autori contemporanei» e più volte caldeggiato come possibile vincitore del Premio Nobel.

Tuttavia di questo libro è difficile parlare, proprio per la sua natura dispersiva. Ciò che lo ricompatta, insieme allo stile strabiliante di chi scrive, è un certo discorso su un Giappone prettamente letterario, che si rifà ad un tempo che ormai non esiste più, e le riflessioni che può aprire ai diversi modi in cui il viaggiatore si confronta al Sol Levante.

Ma iniziamo dal principio.

Quale è il Giappone di Nooteboom?

Nei suoi viaggi Nooteboom varca grandi città, si spinge in provincia, circondato da una folla che pare moltiplicarlo nei passi, si imbatte in un festival di pesci infilzati negli spiedi e il riso impacciato di uomini e donne che non sanno spiegarsi in inglese; poi a Kyoto, nel Byōdō-in, tra alberi “addomesticati”, come addomesticata gli pare la società che lo rispetta e insieme, gli pare, lo escluda, intenta com’è nella propria vita misteriosa. E ancora Kamakura, Nara, l’incontro con un attore kabuki.

Come spesso capita al viaggiatore più raffinato e smaliziato, Tokyo lo attira e lo repelle. Se ne ha l’immagine di un organismo gargantuesco che ingurgita la provincia e che di natura e cultura antica ha poco o niente. Invero si tratta più di un pregiudizio che d’un dato reale, ma prevale indubbio il contrasto tra Tokyo e “il resto del Giappone”, così che Nooteboom nei suoi pellegrinaggi decide di non limitarsi alle tappe principali, ma indaga percorsi meno battuti, come quando intraprende il viaggio impegnativo e straniante per i trentatré monasteri giapponesi:

«L’obiettivo segreto e inconsapevole di certi viaggi è quello di mandare in totale confusione il viaggiatore, estraniarlo a tal punto dalle sue origini da far apparire la sua esistenza come un’oscura faccenda cui potrà tornare solo con grande difficoltà. Soltanto allora sei stato veramente via, così altrove da essere forse diventato altro.»

Quando è il Giappone di Nooteboom?

È un Giappone cha s’apre a ventaglio, nella varietà, quello di Nooteboom. Tuttavia i suoi riferimenti, e quanto pare cercare in ogni viaggio o mostra in cui si reca, sono di natura prettamente letteraria, fuori dal tempo. In primis torna la letteratura sontuosa di Murasaki Shikibu, il mondo pregresso di un Giappone lontanissimo, edulcorato e già in decadimento, vivido e ampliato dalla lente d’ingrandimento (e fors’anche di abbellimento) della letteratura, eppure invisibile già allora a chiunque non vi partecipasse in prima persona.

Va infatti ribadita la natura del tempo in questa miscellanea: anche senza andare a scomodare il periodo Heian della corte del principe Genji, il tempo descritto in Cerchi infiniti, è già lontano dal lettore odierno, considerando che questi scritti disparati (resoconti di viaggi, recensioni narrative di mostre in Europa, postfazioni di romanzi di autori giapponesi) sono stati redatti tra il 1977 e il 2012.

Nooteboom cerca costantemente tra le pieghe del contemporaneo, un Giappone che non c’è più, come la piccola madeleine di proustiana memoria si indovina per subito dimenticare quanto essa recuperava dell’infanzia perduta. Fa lui stesso, più volte, una ammissione di colpa:

«La seconda volta urtai violentemente contro l’impenetrabilità della società giapponese. Mi resi conto che devi realmente saper leggere e parlare il giapponese per trovare nel Giappone di oggi quello di allora, che per questo è troppo tardi, e che dovrò limitarmi ai pezzi di Giappone «puro» che, come qui in questa mostra, mi vengono presentati, e a ciò che posso leggere in traduzione. In altri termini, non ho più bisogno di andarci. Ciò che voglio vedere è già qui, o viene qui.»

Nel sovrapporre un pescatore scorto sulla sponda del fiume Oi nella Prefettura di Kyoto nel 1992, con quello ritratto nel 1833 da Utagawa Hiroshige, pare di trovarsi davanti ad uno di quegli album plastificati in cui le rovine di oggi si sovrappongono ai fasti di ieri, così che al Colosseo – voltando una pagina semi-trasparente – si restituiscono statue e il lucore di un tempo. Il come era rifulge mostrando del come è diventato tutta la ritrovata miseria, e insieme il sapore del tempo che la “rovina”, Marc Augè docet, racconta.

Come è il discorso di Nooteboom sul Giappone?

È efficace il discorso di Nooteboom quando usa il Giappone come specchio per osservarsi, meno quando mette in tavola dinamiche di giudizio:

«Eccola, la farfalla svilita in uniforme che sotto nasconde un’altra persona, una che ama un ragazzo o magari desidera diventare campionessa di nuoto, una che si guadagna da vivere con gli inchini, che si è lasciata spogliare di ogni altra espressione in cambio di quell’unica: la servilità.»

Cosa ci vede Nooteboom nella cortesia giapponese? Cosa lo spinge a giudicare servilismo il lavoro di una commessa? Cosa ci legge che invece non c’è? Il ruolo, in Giappone, è per buona parte una difesa, una specie di armatura dal fastidio e dalla confidenza molesta dell’altro, dall’imprevisto che origina confusione e perdita di tempo.

A scrivere libri di viaggio ci si espone consapevolmente al pericolo di sbagliare, lo si fa sapendo di star raccontando più se stessi che l’altro, di cui per forza di cose si comprende meno di quanto non si vorrebbe. Approfondire porta dall’altra parte della barricata e quello che si scrive smette di essere un libro di viaggio fantasmagorico come In Patagonia (Adelphi, 1982) di Bruce Chatwin (che inventava di sana pianta affascinantissimi incontri mai avvenuti) o diviene specialistico sguardo antropologico come quello di Lévi-Strauss nella raccolta di scritti sul Giappone L’altra faccia della luna (Bompiani, 2015) o ancora strettamente semiotico, eppure entusiasta, di Roland Barthes ne L’impero dei segni (Einaudi, 1984). Una cosa tuttavia non esclude l’altra se, come ben definisce Vincenzo Matera nel suo recentissimo Antropologia contemporanea. La diversità culturale in un mondo globale (Laterza, 2017) “un invito all’antropologia è un invito a compiere un viaggio”, in un giro lungo che non ammette scorciatoie e che della differenza fa il terreno d’incontro “entro le società e fra le società”.

E infine…

E se il Giappone, dopo questa lettura, ne esce più annodato di prima, andando a rinforzare l’idea di una sua impenetrabilità sostanziale benché non ostile, va detto che Cerchi infiniti ha il merito di mettere addosso la voglia di leggere più letteratura giapponese, Murasaki Shikibu, Sei Shōnagon, Kawabata Yasunari, Mishima Yukio.

«Quando sono in Giappone mi ritrovo in una ragnatela di significati nascosti, ciò che non capisco si mescola con ciò che posso leggere. Il mio Giappone è un Giappone di libri. Due sono quelli che mi sono portato in questo viaggio per rileggerli, e anche questa è una mistificazione perché sono stati scritti quasi mille anni fa da signore aristocratiche della corte imperiale di Kyoto, che allora si chiamava ancora Heian. Uno è un diario, Note del guanciale di Sei Shōnagon, l’altro, La storia di Genji, scritto da Murasaki Shikibu, è il primo romanzo che sia mai stato scritto, un proustiano romanzo fiume pieno di intrighi e storie d’amore intorno alla figura di Genji, il principe splendente.»

Anche in Tumbas – Tombe di poeti e pensatori (Iperborea, 2015) erano le tombe di Kawabata Yasunari e Murasaki Shikibu i soli autori giapponesi a trovare spazio nella galleria di autori davanti alla cui lapide Nooteboom va a offrire omaggio. E dove, ancora una volta, affermava: «Il mio Giappone è un Giappone di libri».

 

Laura Imai Messina

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