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Gianrico Carofiglio, “Ammettere le proprie fragilità è la cosa più intelligente che si possa fare”

Gianrico e Giorgia Carofiglio, padre e figlia, per la prima volta insieme. Dopo i podcast di Coffe for two, nasce “L’ora del caffè”, una riflessione a quattro mani. Li abbiamo intervistati.

Gianrico e Giorgia Carofiglio, padre e figlia, per la prima volta insieme. Dopo i podcast di Coffe for two, nasce L’ora del caffè” (Einaudi Stile libero, p.144) una riflessione a quattro mani. Un manuale di conversazione per generazioni incompatibili. Uscito il 22 novembre e già nella top ten dei libri più venduti nelle ultime settimane.

Intervista a Gianrico e Giorgia Carofiglio

Un libro scritto da Gianrico e Giorgia Carofiglio che è un invito a porsi delle domande, a non dare nulla per scontato e a percorrere sempre la via del dialogo, anche quando le distanze sembrano incolmabili come quelle di due generazioni con oltre 30 anni di differenza: quella dei Boomer e quella dei Millennial. Per Gianrico “il libro è nato in modo molto naturale dopo il dialogo padre-figlia con i podcast”, per Giorgia “un’esperienza intensa e faticosa che ci ha avvicinato nel periodo del lockdown, ma, almeno nel breve termine, da non ripetere”.

 

Facile immaginare che non sia semplice essere la figlia di Gianrico Carofiglio, intellettuale, scrittore di bestseller, i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo, autore e sceneggiatore. Già magistrato e deputato. Quando hai iniziato a registrare i podcast, a due voci “Coffe for two” e poi il libro insieme a tua figlia Giorgia, non hai mai pensato alle possibili “conseguenze”, soprattutto per lei?

Un sacco di gente, perlopiù, per il gusto molto diffuso di spandere ostilità e odio, ha fatto osservazioni spiacevoli sul libro fatto dal padre con la figlia “raccomandata” e analoghe sciocchezze. Questo nella sua concezione è un libro fra padre e figlia, per cui avendo solo lei come figlia (e un maschio non interessato a questa cose) era inevitabile scriverlo con Giorgia. A parte questa risposta banale, è stato fisiologico, sano, oltre che un’esperienza istruttiva per me. Dopodiché, ognuno va per la propria strada e penso che mia figlia non abbia nessuna intenzione di fare altri libri con un padre ingombrante come me.

 

In un tweet hai definito “L’ora del caffè” “Un atto politico. Una scommessa sulla possibilità di immaginare una politica piena di speranza e di allegria. Un’idea di futuro possibile”. Un libro di 140 pagine, in 140 battute. Splendida sintesi, ma ci sveli qualcosa che va oltre il tweet?

Il mio punto di vista è condensato in un aneddoto raccontato alla fine del libro. E’ la storia di un famoso matematico; il suo ricordo di una lezione universitaria alla quale arrivò in ritardo. Il professore aveva già scritto sulla lavagna i compiti. Il giovane, piuttosto imbarazzato per il ritardo, ricopiò i problemi scritti alla lavagna e dedicò il fine settimana a cercare di risolvere queste equazioni. Poi, consegnò il risultato, dopo aver fatto molti sforzi per risolvere quei problemi, nonostante fosse uno studente brillante. Il professore, qualche tempo dopo, lo cercò entusiasta e stupefatto: non erano compiti ma due problemi statistici che fino a quel momento non avevano trovato soluzione da parte degli specialisti.

Il senso di questa storia è che, con ogni probabilità, il giovane matematico non avrebbe risolto quei problemi se avesse saputo che erano problemi irrisolti e irrisolvibili.

 

Gli aneddoti spesso illuminano la nostra strada. Questo cosa ci insegna?

Ci spiega che spesso ci diamo dei limiti di fronte a un futuro e a un mondo attorno a noi che non comprendiamo del tutto. Fare un atto di fede allegro sulle possibilità degli individui e della collettività è una cosa sana per noi, ed è morale e giusto. Non è un’idea banale di “ottimismo ottuso”, non significa non vedere i problemi, ma saper cogliere un mondo di possibilità che ci stanno attorno e di cui spesso non siamo consapevoli.

In fondo, credo che ne sappiamo troppo poco di tutto per essere pessimisti; la vita individuale e collettiva è piena di sorprese. Anche le previsioni più pessimistiche vengono poi cancellate da eventi che uno non poteva immaginare: quasi sempre accade qualcosa di inaspettato, si tratta di saperlo afferrare.

 

Il libro si apre con una citazione molto bella di Salvador Allende “Essere giovane e non essere rivoluzionario è una contraddizione perfino biologica” e viene subito da chiedersi, chi fa la parte del rivoluzionario e chi del conservatore?

Giorgia sorride. Grazie al libro le nostre posizioni si sono avvicinate. Io porto un punto di vista più fresco, ma mio padre porta un punto di vista più ottimista; si tratta di quel tipo di ottimismo e di energia anche un po’ rivoluzionari, che manca a me e alla mia generazione e questo mi preoccupa. Nel libro si spiega come i Baby boomer, nati tra il dopo guerra e la metà degli anni sessanta, sono cresciuti con il mito che tutto è possibile, con l’impegno. Per noi Millenial la realtà è molto più dura, perché il contesto economico e sociale e’ cambiato, ed è un dato di fatto che i giovani rimandano tutte le scelte importanti: comprare casa, sposarsi, fare dei figli. Tutto questo crea una frattura profonda e inasprisce lo scontro generazionale, da qui l’importanza del dialogo.

 

Salute fisica e salute psichica. Disagio mentale, fragilità, consapevolezza della propria condizione. Sono tutti temi affrontati nell’età dell’ansia. Ma come si risponde alla domanda – che voi vi fate – “perché non chiedere aiuto quando il disagio è nella psiche, visto che se abbiamo un braccio rotto andiamo dal medico?” Cioè con un braccio rotto a nessuno verrebbe in mente di curarsi da solo. Allora perché c’è ancora questa “resistenza”, forse culturale, ad affrontare il tema quando il disagio non riguarda solo il corpo ma la psiche?

E’ più complicato affrontare la malattia mentale, perché ha un effetto sulla propria personalità e sul proprio senso di sé.

Inoltre c’è un dato culturale e generazionale, che riguarda soprattutto i maschi restii a mostrare la propria fragilità. Il cancro negli anni ‘70 era il simbolo di una personalità repressa, il male mentale era visto come un problema di carattere non come una malattia…

 

Sempre nel capitolo L’età dell’ansia. C’è un passaggio che mi ha colpito molto “in realtà, l’aver gestito una crisi da soli non rende per forza migliori”. Ecco per la mia generazione e anche per l’educazione che ho avuto il cavarsela da soli è sempre stato un indicatore di emancipazione. Questo libro fa vedere l’altra faccia della medaglia: “doversela sbrigare sempre da soli, senza mai chiedere aiuto, è una debolezza travestita da forza”. Perché molte volte non lo si fa perché “non si sa chiedere aiuto”.

C’è ancora una grande “resistenza” culturale, soprattutto da parte dei maschi. La fragilità non corrisponde allo stereotipo del maschio: il maschio non piange, il maschio non chiede aiuto, il maschio non ha dei problemi psicologi e se li ha li risolve con pratiche da maschio. Oggi, che i ruoli sociali definiti, rigidi e tassativi vengono meno e che non ci si può più rifugiare in ruoli predeterminati, ammettere le proprie fragilità è la cosa più intelligente che si possa fare.

 

Come si cambia il gioco, come si invertono i mali del nostro tempo?

Cambiare il gioco” è il titolo dell’ultimo capitolo dedicato alla Politica dove si cerca di spiegare che la politica, la partecipazione, l’impegno e la voglia di cambiare il mondo possono essere diverse da quelle tristi, piuttosto angosciose, a volte squallide, che vengono rappresentate dalle cronache.

Si dice che la Politica deve essere allegra, che vuol dire immaginare allegramente di cambiare il mondo, deve rifiutare quello che soprattutto è frequente a sinistra, l’idea della politica del senso di colpa del “siamo tutti colpevoli di..” che è ben diverso dal senso positivo del “siamo tutti responsabili di..”.

Concludo citando uno scritto del filosofo Michel Foucault “Introduzione alla vita non fascista” con una riflessione che sottoscrivo in pieno: “Toglietevi dalla testa l’idea che essere militanti debba necessariamente significare essere tristi”. E’ un dettaglio in apparenza, ma in realtà è un’idea di mondo e di modo di stare al mondo.

 

In questo libro, oltre allo sforzo di trovare un linguaggio comune per dialogare, c’è la volontà di passare dalla concezione di “ciò che è utile per me” a “questa azione è la mia parte di un’azione collettiva che produrrà effetti positivi per noi”. Quindi, perché è utile per noi, leggerlo?

Domanda difficile. Poche domande sono più a rischio di autocelebrazione di questa, peraltro perfettamente legittima, perché le interviste si fanno per suggerire di leggere il libro. La ragione fondamentale per cui potrebbe essere una buona azioni verso se stessi leggere questo libro è contenuta nella premessa di metodo del primo capitolo de L’ora del caffè. L’idea che noi tutti, molto spesso, non interloquiamo davvero con gli altri, anche se educatamente parliamo e annuiamo o ci scriviamo. In realtà, molto spesso comunichiamo con lingue diverse, usiamo parole diverse condizionate dai nostri presupposti cognitivi. Quando guardiamo un oggetto, un evento, un fenomeno, lo vediamo, lo rappresentiamo nella nostra mente e lo raccontiamo in modo diverso. Riuscire a diventare consapevoli di questo problema e superarlo, è un’abilità sociale e personale molto importante. E forse con questo libro diamo qualche consiglio utile.

 

 Silvia Grassi

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