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Gianfranco Manfredi, “Dall’Italia neo-nazionalistica di oggi non partirà un nuovo Sessantotto”

Lo storico sceneggiatore della Sergio Bonelli Editore è autore di "Sessantotto. Cani Sciolti", volume a fumetti che arriva in libreria a 50 anni dai moti studenteschi del 1968

MILANO – Un nuovo rinascimento in Italia? Penso che tornerà grazie ai figli degli immigrati che per loro condizione sono ponti culturali, costretti fin da piccoli ad approfondire per affrontare il contesto in cui crescono, protagonisti di nuove identità generazionali multietniche. E’ questa la teoria di Gianfranco Manfredi, storico sceneggiatore della Sergio Bonelli Editore ed autore di “Sessantotto. Cani Sciolti“, volume a fumetti che arriva in libreria a 50 anni dai moti studenteschi del 1968. Il volume ha come intento non quello di presentare le vicende in maniera didascalica, bensì di seguire la quotidianità dei personaggi, per capire come il mondo che si andava trasformando ha cambiato loro.

 

A cosa ti sei ispirato per i personaggi protagonisti del volume?

I personaggi sono inventati, le loro esperienze no. Ho raccontato esperienze reali vissute personalmente o indirettamente o che mi sono state raccontate da amici. Non soltanto esperienze di quei ragazzi e ragazze, ma anche esperienze dei loro fratelli maggiori, dei loro genitori, di loro conoscenti, in modo da costruire un quadro piuttosto sfaccettato dell’epoca, inserito in un contesto più ampio di storia italiana e costantemente a raffronto tra com’erano i protagonisti a diciotto/vent’anni e come sono diventati vent’anni dopo. Non ho d’altra parte interpretato gli anni 80 come un “Grande Freddo” perché i ragazzi che racconto, da non più ragazzi, continuano per loro propensione e nonostante i tanti cambiamenti intervenuti nella loro vita personale, ad essere parecchio caldi. L’arco narrativo va principalmente dal 1968 al 1989. Questo arco non è scelto a caso, visto che si racconta la generazione dei baby-boomers, nati del dopoguerra, bambini durante la Guerra Fredda, decisi a uscire dalle logiche dei blocchi e che da adulti assistono a un coronamento oggettivo e persino insperato e spiazzante del loro percorso: la caduta del muro di Berlino.

 

Come è cambiato il nostro Paese in questi 40 anni?

Noi baby-boomers eravamo tanti.  Moli italiani erano morti in guerra. Il nostro peso si faceva sentire nella società, anche sul piano dei consumi. Le nostre famiglie erano state impegnate nella ricostruzione, noi sentivamo di dover dar vita a un mondo rinnovato non più inquadrabile soltanto nel lavoro e nei ruoli d’un tempo, anche perché ben consapevoli che assai difficilmente avremmo comunque potuto trovare un inserimento: ci attendeva l’insicurezza delle prospettive, il lavoro saltuario e precario, la disoccupazione, dovevamo per forza di cose re-inventarci la vita secondo nuovi moduli e non potevano certo essere quelli dell’Uomo a una dimensione di cui parlava criticamente Marcuse. Il confronto con l’oggi? La società italiana è invecchiata. Centinaia di migliaia di giovani, a ondate, hanno cercato migliori opportunità di lavoro e di vita all’estero. I consumi oggi sono sostenuti o dai ragazzini oppure dagli anziani. Per le generazioni di mezzo , cresciute davanti alla televisione o al web, l’isolamento è il punto di partenza, la socialità un raggiungimento difficile, si crede magari che risieda nella partecipazione massificata ai concertoni  negli Stadi, mentre noi, avendo vissuto il post-Woodstock e il Parco Lambro, aspiravamo al contrario cioè a occasioni di incontro più sociali e più intime, al do it yourself dei punk, all’autoproduzione dal basso, alla contestazione del dominio dello Spettacolo Mercificato, alla ricerca del corpo più che dell’apparenza. Con questo non voglio dire che fossimo MIGLIORI, voglio dire che le condizioni oggettive, le nostre condizioni di partenza erano assai diverse se non opposte. Tuttavia, essendo stato il 68 un fenomeno mondiale, ed essendo stati i 68 molto diversi tra loro nei diversi paesi, oggi è bene individuare il filo di continuità globale, al di là del nostro paese: lo spirito delle manifestazioni studentesche americane Occupy Wall Street e quelle recenti contro le armi, è lo stesso del nostro. Quarant’anni fa l’Italia era uno scenario cruciale per tutto il mondo, nel contesto del Mediterraneo e dello scontro tra i blocchi. Oggi l’Italia conta molto meno sullo scenario geopolitico. Gli italiani nel mondo, anche e soprattutto quelli giovani, hanno maggior rilievo degli italiani rimasti dentro un confine neo-provinciale. Per questi, sinceramente, non credo ci siano molte speranze.  Ci sono isole come Milano o Napoli che restano fucine stimolanti e sperimentano costantemente nuovi modelli di convivenza, aperti al mondo, sia al mercato che alla socialità (perché le due cose vanno insieme), ma c’è un’Italia profonda che di prospettive non ne ha e nemmeno vuole averle e si arrocca nel rimpianto di ciò che non c’è più e non può più esserci.

 

Sei sceneggiatore per diversi personaggi bonelliani. Quali sono le principali differenze, oneri ed onori, tra lo scrivere storie di personaggi inventati e scrivere riferendosi ad episodi storici?

La differenza è abissale. Un conto è inventare avventure, un altro raccontare esperienze di vita. Ma questo non è un rinnegamento dell’avventura. La vita della mia generazione è stata estremamente avventurosa.

 

A tuo parere, l’Italia oggi sta vivendo un nuovo sessantotto? O pensi che quel modo di reagire a ciò che stava accadendo nella società sia un evento irripetibile?

Un paio di settimane fa a un incontro milanese, il mio caro amico Ivan Cattaneo ha detto che il trentennio 60/70/80 è irripetibile, e che ci vorrà probabilmente un secolo perché si possa ripetere qualcosa del genere. Certe spinte rivoluzionarie si sono propagate come un’onda che ha raggiunto anche le generazioni successive, ma si ha la sensazione che l’onda si sia indebolita parecchio, col tempo. Faccio un esempio di irrepetibile: in quel trentennio, ma soprattutto negli anni 70, nell’editoria la saggistica vendeva di più della narrativa. Questo significa che l’intera società italiana, al di là degli studenti, studiava per cercare di capire dove il mondo stava andando a parare. Non si era mai letto tanto e studiato tanto come in quegli anni, lo dicono i dati, non le opinioni. Oggi la saggistica boccheggia. La principale se non esclusiva fonte di informazione per il 90% degli italiani è la televisione e la televisione per sua natura è, anche nell’informazione, intrattenimento, non studio, non approfondimento. Internet potrebbe esserlo , ma viene usato così? Per me, da ricercatore, Internet è stato il paradiso, mentre prima per trovare un testo dovevo viaggiare, adesso lo trovo in poco tempo. Ma ai ragazzi, fin dalle scuole, viene insegnato come cercare le cose, come distinguere una fonte sicura da una farlocca? No. Si usa la rete come intrattenimento personale o per sentirsi meno soli. Tornerà l’età dell’approfondimento? Penso che tornerà grazie ai figli degli immigrati che per loro condizione sono ponti culturali, costretti fin da piccoli ad approfondire per affrontare il contesto in cui crescono, protagonisti di nuove identità generazionali multietniche e basta prendere il metro nell’ora di uscita dalle scuole, per rendersene conto. Da loro, da questi ragazzini, possiamo attenderci un nuovo rinascimento. Ma dovranno passare parecchi anni ancora per vederne i frutti in Italia. Nel mondo, si vedono già benissimo, ma l’Italia neo-nazionalistica non ci vede proprio e da questa Italia non possiamo attenderci alcun nuovo sessantotto.

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