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Erri De Luca, spigolatore che scrivendo si tiene compagnia

Erri De Luca, napoletano, ha fatto nella sua vita moltissime cose prima di diventare uno scrittore affermato. La prima opera che ha pubblicato è il romanzo Non ora, non qui...

Erri De Luca, napoletano, ha fatto nella sua vita moltissime cose prima di diventare uno scrittore affermato. La prima opera che ha pubblicato è il romanzo Non ora, non qui (Feltrinelli, 1989), seguito da molti altri, fra i quali “Una nuvola come tappeto”, “Aceto, arcobaleno”, “Tu, mio”, “Montedidio”, “Il peso della farfalla”, “La doppia vita dei numeri”, “Il torto del soldato”.

 

Erri De Luca, per quello che di lui si riesce a capire dalle interviste e dalla partecipazione a programmi televisivi, non assume pose da intellettuale, pur essendo uomo di cultura in senso ampio. Mi sono affezionata alla sua scrittura poetica e alle sue storie impalpabili − in cui le cose davvero importanti accadono nel cuore e nella mente dei personaggi, anziché intorno a essi − fin da quando ho letto il suo primo romanzo, Non ora, non qui. Mi sono costruita una sua immagine di uomo di poche ma dense parole (pienamente confermata da questa conversazione), che farebbe a meno di raccontarsi in pubblico; poco portata come sono alle domande ficcanti, sento ancor più del solito l’obbligo della discrezione (tutta la discrezione compatibile con quello strumento di invasione accettata che si definisce intervista).

La prima cosa che mi viene in mente di chiedergli − essendomi posta tante volte questa domanda, mentre leggevo le sue opere − è se la sua scrittura è istintiva o meditata, insomma se riscrive e lima, se cova a lungo una storia o la scrive di getto.

Scrivo seguendo il tono di voce di un io narrante che racconta una storia accaduta. Perciò la scrittura sul quaderno prosegue fluida e svelta come in un ascolto. L’editore sa che dal primo formato in lettura a quello di stampa le differenze sono trascurabili. Posso dir di scrivere di getto, ma del tipo di getto a contagocce che esce da una penna.

 

La sua vita è stata complessa e faticosa. Ha conosciuto paesi e lingue diversi, sperimentato mestieri di ogni genere. Sarebbe diverso il suo modo di scrivere se i suoi percorsi fossero stati lineari? Come si intrecciano, nella sua esperienza, la vita e la scrittura?

Dipendo dalla vita svolta per ogni mia pagina. Giorgio Caproni scrisse che il poeta è un minatore. La mia immagine è quella di un raccoglitore che passa a spigolare dopo che sono passati i mietitori. Sono uno che raggranella un resto.

 

Un grande amore per le parole e un grande amore per la memoria traspaiono dalle sue opere. Forse era inevitabile che diventasse uno scrittore. Ricorda un momento preciso in cui un’aspirazione indistinta ha virato verso un progetto definito? O si è ritrovato scrittore non dico per caso, ma senza averci mai contato troppo?

Mi sono tenuto compagnia con la scrittura dalla prima età di coscienza, il primo raccontino l’ho scritto a 11 anni e riguardava un pesce. Ma diventare scrittore è stato per me un conficcarmi dentro il vocabolario italiano, cercare lì dentro una pista. Sante Notarnicola, detenuto in prigione per decenni, durante una perquisizione si vide portare via tutti i libri. Gliene permisero solo uno. Sante scelse di tenersi il vocabolario. La sua scelta fulmina con un semplice gesto tutto il mio diventare scrittore: tenermi un vocabolario, abitare lì.

 

Che rapporto ha con Napoli, la sua città natale?

Un rapporto di origine: vengo da lì, da quei suoi anni di dopoguerra, da quel dialetto, da quella densità abitativa, dalle collere  imparate lì e da quelle compassioni. Quella città mi è stata causa e io sono uno dei suoi effetti, scaricati altrove.

 

 

Grazie per il suo tempo e le sue risposte.

Rosalia Messina

21 giugno 2014
 
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