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Erika Bianchi, “Vivere significa correggere un sistema di equilibri che si spezzano”

Intervista all'autrice del libro "Il contrario delle lucertole" , la storia di quattro generazioni, in cui le leggi che regolano i legami familiari sono sovvertite fin dal primo giorno

MILANO – Pedalare significa correggere senza sosta un sistema di equilibri che si spezzano in continuazione, proprio come vivere. E’ questa la metafora utilizzata dalla scrittrice ed insegnante fiorentina Erika Bianchi, autrice del libro “Il contrario delle lucertole” , la storia di quattro generazioni, in cui le leggi che regolano i legami tra padri e figli, tra madri e figlie, sono sovvertite fin dal primo giorno, dando origine a destini zoppi di coppie spaiate e figlie abbandonate ma anche ad amori assoluti e racconti di biciclette, animali, sogni tramandati come tesori.

 

Iniziamo dal titolo: perché si intitola “Il contrario delle lucertole”?

Perché è una storia che parla di persone che, come tutti, perdono pezzi, ovvero affrontano vuoti causati da lutti, abbandoni, amputazioni emotive di vario genere. Al contrario delle lucertole, creature capaci di rigenerare in fretta la coda mozzata, le nostre perdite sono invece irreversibili. A meno che non si riesca a far tesoro del vuoto lasciato da una cosa che c’era, e che non è mai un vuoto vero, ma uno spazio che contiene un’impronta.

 

Per la storia dei personaggi, hai attinto da fatti reali o esperienze personali, oppure è tutto frutto della tua fantasia?

Sia la vicenda che i personaggi sono di pura fantasia, per quanto lavorare di immaginazione significhi certamente anche attingere al serbatoio della propria esperienza nel mondo, fatta non tanto di ricordi personali quanto di letture, studi, relazioni umane e disposizione all’ascolto delle storie altrui.

 

Perché hai scelto di narrare i fatti accaduti a ritroso? Quali sono stati i vantaggi e le difficoltà di questo espediente narrativo?

Non posso dire di averlo scelto razionalmente: la storia mi è nata dentro così, mi è sempre sembrato l’unico modo possibile di raccontarla, non ho mai preso in considerazione la possibilità di narrarla secondo l’ordine naturale del tempo. Forse è una sorta di deformazione professionale: ho studiato storia e di mestiere la insegno, mi viene spontaneo chiedermi il perché delle cose, nutrire per le cause di ogni evento un interesse almeno pari a quello che mi suscitano gli effetti. In questo libro, gli effetti si conoscono dalle prime pagine, ciò che è successo si sa dall’inizio. La spinta alla lettura dovrebbe venire dalla curiosità di sapere perché le cose sono andate in un certo modo, cosa è successo prima, invece che dopo.

 

Elemento chiave nella trama del libro è “la bicicletta”. Spiegaci il perché di questa scelta.

La bicicletta e il ciclismo sono un espediente narrativo, ma anche una metafora esistenziale. Non sono un’esperta di ciclismo, anche se, come per ogni altro sport, mi interessa la sua intersezione con i processi storico-politici e le istanze sociali che spesso promuove o evidenzia. Il ciclismo è uno sport popolare, molto amato in Toscana, la mia regione, e mi ha fornito un sottobosco fertilissimo in cui far muovere i personaggi che nel romanzo vivono a Ponte a Ema, il paese di Gino Bartali. Inoltre, il Tour de France era l’aggancio perfetto – forse l’unico possibile – tra i due ragazzi che, all’inizio del libro, si amano per il tempo di una notte: un acquaiolo toscano diciassettenne e una cameriera bretone quindicenne. Dalla loro unione nasce Isabelle, il personaggio che forse costituisce il vero cuore e motore del libro; per lei, e per le sue figlie Marta e Cecilia, la tematica delle biciclette è costante, ma metaforica: pedalare infatti significa correggere senza sosta un sistema di equilibri che si spezzano in continuazione. Proprio come vivere.

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