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”Donne di Algeri nei loro appartamenti” di Assia Djebar

Sguardi vietati e suoni tronchi: attorniate da stoffe tessute con il cemento, non possono essere guardate né guardare, non possono ascoltare né parlare, le Donne di Algeri nei loro appartamenti, ritratte da Eugéne Delacroix nel 1834...

Il morbido fruscio della seta.

Il sontuoso bagliore dell’oro.

L’inebriante aroma sprigionato dal narghilè.

Il denso profumo dei corpi femminei.

 

Sguardi vietati e suoni tronchi: attorniate da stoffe tessute con il cemento, non possono essere guardate né guardare, non possono ascoltare né parlare, le Donne di Algeri nei loro appartamenti, ritratte da Eugéne Delacroix nel 1834.

All’esterno dell’harem i veli, anche se non sono che taciti compagni di un passato troppo vicino, ormai deposti negli armadi, sono ancora maschere di ferro che rendono cieche e invisibili… eppure basta saper penetrare nel silenzio di notti stellate per udire un sussurro di parole, melodie, salmi.

 

Sono le voci delle Donne di Algeri riportate dalla scrittrice Assia Djebar, nel suo capolavoro edito nel 1980. Voci che, attraverso i vari dialetti arabi, il berbero e la lingua dei colonizzatori, il francese, rivelano una vita fatta di lemmi declinati al femminile, nei quali il ricordo serba la memoria e regala un futuro diverso, costruito suono dopo suono, nell’oscurità del segreto, durante il flusso delle generazioni.

Attraverso le sue pagine vibranti, scritte in uno stile ammaliante, la Djebar ci rammenta, dunque, il grande potere del racconto, che prevede il ruolo attivo anche dell’ascoltatore, depositario di una storia destinata, così, ad essere infinita.

 

Come profetizzò Pablo Picasso nelle sue tele, solo scostando cortine rosso porpora e facendo colpire da dardi di sole carni bianche di prigionia e facendo risanare llingue mutilate da un silenzio un tempo imposto, come segno distintivo di una donna, si può essere libere di essere.

Le parole sono vive e hanno occhi.

 

 “Non vedo altra via d’uscita per noi se non per mezzo di incontri come questo: una donna che parla di fronte ad un’altra che guarda. Quella che parla sta raccontando l’altra, i suoi occhi brucianti, la sua memoria nera […]. Colei che guarda, a forza di ascoltare, di ascoltare e ricordare, finisce col vedere se stessa per mezzo del proprio sguardo”.

 

Emma Fenu

 

22 marzo 2015

 

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