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Il diario di Silvia Romano, quando la scrittura ti salva la vita

Da Anne Frank e Aleksandr Solženicyn, fino a Silvia Romano, sono diversi gli esempi in cui la scrittura può salvarti la vita

Da Anne Frank e Aleksandr Solženicyn, fino a Silvia Romano, sono diversi gli esempi in cui la scrittura può salvarti la vita. Liberata dopo 18 mesi di prigionia fra il Kenya e la Somalia, Silvia Romano ha ripercorso ieri le vicende del suo sequestro. Lo ha fatto affidandosi a un diario. Un diario che è rimasto ai carcerieri, ma che è stato per lei il mezzo per ricordare i dettagli del sequestro e le sensazioni dei mesi trascorsi in prigionia. Questo dettaglio ci ha riportato alla mente le storie di prigionieri che, come Silvia, hanno in passato affidato le sofferenze della prigionia alla scrittura. Perché, come scriveva Anna Frank nel suo diario: “Posso scrollarmi di dosso tutto mentre scrivo; i miei dolori scompaiono, il mio coraggio rinasce”.

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Silvia Romano si è convertita all’Islam dopo un percorso di fede spontaneo e adesso si chiama Aisha. Ecco il significato del nome secondo la tradizione araba

Prigionia e scrittura 

La condizione di prigionia implica, nella maggior parte dei casi, un mutamento radicale in chi l’ha esperita. Trovarsi rinchiusi, lontano dai propri affetti, in balia di forze che sfuggono al proprio controllo, non può che cambiare profondamente la vita di un uomo. Dentro un prigioniero, si apre una voragine, fatta di interrogativi, dubbi, risonanze, ricordi, paure. Una voragine in cui si rischia di annegare e a cui bisogna trovare un modo per resistere, per imporre la vita, a scapito della morte. Proprio, come ha fatto Silvia Romano, armata soltanto di un taccuino e una penna, per sopravvivere all’inferno della prigionia. 

Poi un giorno ho chiesto un taccuino e una penna. Me l’hanno portato e da quel momento ho cominciato ad appuntare tutto quello che accadeva, a segnare il cadenzare del giorno e della notte. E in un certo modo ho cominciato anche a stare meglio. 

Quando la scrittura ti salva la vita

Da sempre, la scrittura è un potentissimo strumento di resistenza. A testimoniarlo sono i diari dei prigionieri, che alla scrittura si sono affidati per resistere all’angoscia della morte, all’incertezza del proprio destino. Da Oscar Wilde che, arrestato per calunnia e poi per sodomia, scrisse durante il suo periodo di detenzione una delle sue opere più conosciute, il De Profundis. A Le mie prigioni di Silvio Pellico, romanzo simbolo della vita in carcere e della fede come resistenza ai soprusi e alle ingiustizie. Fino al celebre Diario di Anne Frank, il racconto di una ragazzina ebrea che a tredici anni narra gli orrori del Nazismo dal suo nascondiglio ad Amsterdam. 

Da Anne Frank ad Aleksandr Solženicyn

Fra gli esempi più significativi, non possiamo dimenticare lo scrittore del gulag, Premio Nobel per la letteratura nel 1970, Aleksandr Solženicyn. Per avere espresso il suo dissenso verso Stalin, egli fu deportato in un lager sovietico e qui compose a memoria Arcipelago Gulag, il racconto agghiacciante dell’esistenza quotidiana in un gulag sovietico. Durante gli anni di gulag, non potendo scrivere, Solženicyn compose centinaia di versi, imparandoli a memoria, con l’aiuto di un rosario fatto di cento piccoli grani di pane. Un esempio che ci aiuta a comprendere quanto la scrittura sia un’esperienza interiore di assoluta forza 

 

 

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