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Davide D’Urso, una passione per i libri che coltiva non solo scrivendoli, ma anche vivendo tra gli scaffali di una libreria

Davide D’Urso, libraio e scrittore (o scrittore e libraio), autore delle raccolte di racconti Il paese che non voleva cambiare (Manni, 2007) e Incontri notevoli di un libraio militante (Valtrend, 2012)...

Davide D’Urso, libraio e scrittore (o scrittore e libraio), autore delle raccolte di racconti Il paese che non voleva cambiare (Manni, 2007) e Incontri notevoli di un libraio militante (Valtrend, 2012), che di recente ha pubblicato il romanzo Tra le macerie (Gaffi, 2014), racconta in questa intervista un interessante percorso artistico e professionale.

 

E con l’intervista di questa settimana la rubrica La parola all’autore chiude per qualche settimana i battenti. Dopo Ferragosto riprenderà con l’intervista a una giovane, originale autrice. A rileggerci!

 

Davide, i libri sono evidentemente il tuo elemento. Hai scelto proprio di viverci in mezzo. Vuoi parlare di come un laureato in legge arrivi a fare il libraio e lo scrittore? E a proposito, se su due piedi dovessi definirti useresti uno dei due sostantivi, entrambi − e in questo caso in che ordine − o nessuno dei due?

C’è poco da dire, sul mio percorso. Avevo intrapreso gli studi in legge, in attesa di capire cosa davvero volessi fare della mia vita. Quando la passione per i libri è diventata un lavoro vero e proprio, anzi, nel mio caso, un doppio lavoro, allora non ho avuto più dubbi circa il mio avvenire e ho lasciato altri a riempire i tribunali di nuove inutili scartoffie, come scrivo nel mio romanzo.

Sull’uso dei due sostantivi, credo che li utilizzerei entrambi, anzi, li unirei perché stare in mezzo ai libri altrui, vivere dentro il mercato dei libri, mi ha cambiato anche come scrittore.

 

Finisci per affezionarti, immagino, ai frequentatori assidui della libreria. Da lettrice, posso dire che due chiacchiere con il libraio (la libraia, nel mio caso) da cui si va sempre, scambi di idee sui libri che si sono letti, costituiscono sempre un momento piacevole. Dal tuo punto di vista di libraio cosa puoi dire in proposito? E ancora: la tua libreria ospita anche presentazioni di libri? Che rapporto si instaura con gli autori?

Mi trovi d’accordo. Nel corso di questi anni sono centinaia i rapporti che ho instaurato con i lettori; i percorsi di lettura che abbiamo condiviso, un suggerimento dopo l’altro. Ecco perche detesto i discorsi apocalittici che ruotano intorno ai libri; specialmente quelli fatti dagli addetti ai lavori; in particolare dei miei colleghi scrittori. Ho la sensazione che chiusi nel loro mondo, abbiano finito per dimenticarsi dell’interlocutore fondamentale della filiera. E che, a conti fatti, tutto questo ragionare intorno alla crisi della letteratura si sostanzi in una condanna del lettore e delle sue scelte, unica ragione che impedirebbe alla vera qualità di emergere. Non è per fare retorica ma se avessero visto quello che io vedo d’abitudine, mamme di famiglia che con le buste della spesa in mano comprano l’ultimo romanzetto rosa prima di rincasare, penso che assumerebbero un atteggiamento diverso, meno snobistico: che è una delle vere ragioni che ha allontanato i lettori più sprovveduti dalla letteratura. Il dialogo è fondamentale. E l’umiltà di certi lettori è di grande incoraggiamento. Traghettare i lettori verso altri orizzonti letterari è possibile. Io lo faccio da anni.

Circa le presentazioni, ho sempre avuto un rifiuto per quello che a mio modo di vedere si sta trasformando in un vero e proprio teatrino autoreferenziale. Io ho un altro modo di intendere le presentazioni. Collaboravo come volontario per la Fondazione Premio Napoli, quando a presiederlo era un uomo straordinario e uno degli intellettuali più in gamba della città, Silvio Perrella. Ero responsabile di un comitato di lettura che battezzai “Antonio Franchini”, uno dei più grandi scrittori italiani contemporanei, a mio giudizio. Quando, in seguito alle dimissioni di Perrella, smisi anch’io di frequentare la Fondazione, portai avanti la formula del Premio Napoli in libreria. La formula è presto detta. Ogni due mesi scelgo una terna di libri; i lettori leggono i libri: ognuno può leggerne uno, due tre: a seconda delle tasche, e del tempo; poi, alla riunione successiva, ne discutiamo insieme. Il giudizio dei lettori, infine, convince gli altri ad acquistare un secondo libro, o un terzo e così via. In tanti anni che porto avanti questa esperienza, i rapporti umani che sono andato consolidando sono numerosissimi e ormai ci possiamo definire una vera e propria famiglia. Durante queste riunioni, inoltre, coinvolgo spesso degli amici scrittori. È interessante perché gli scrittori partecipano al dibattito intorno alla terna: dunque, come lettori; e poi, solo in un secondo momento, si discute del loro libro. Tutti in circolo, bada bene, senza nessuna scrivania e microfono a creare una distanza, per me questo è fondamentale.  

 

Fantastico. Condivido la tua antipatia per il teatrino autoreferenziale e la tua concezione dello scambio lettori/autori mi piace moltissimo.

Hai esordito con la raccolta di racconti Il paese che non voleva cambiare: storie di gente comune nel Meridione italiano. Che rapporto ha Davide D’Urso con il cambiamento?

In quel libro tratteggiavo i contorni di una provincia che, ignorata dalle Istituzioni, finiva per reagire corrucciatamente all’indifferenza della politica, dando le spalle al Nuovo. Mi sembra che nel corso di questi ultimi anni le cose non siano cambiate granché. La politica ha delle enormi colpe, non si discute; ma le soluzioni alternative proposte di recente mi sembrano più preoccupanti del problema. È nel dialogo con le Istituzioni che bisogna trovare la strada per cambiare; e noi tutti dobbiamo mostrare un maggiore spirito di partecipazione. È in fondo quello di cui parlo nel mio ultimo romanzo. Siamo talmente concentrati su noi stessi che abbiamo perso la capacità di condividere a livello collettivo problemi e valori.  

 

Nei racconti della raccolta Incontri notevoli di un libraio militante esprimi tutto il tuo amore per un mestiere in crisi. Da un lato si legge sempre meno, dall’altro le librerie-supermercato hanno il sopravvento sugli indipendenti. Con quali e quante difficoltà ti misuri ogni giorno? Ti capita di pentirti della scelta che hai fatto?

 

Nient’affatto. È il mestiere più bello del mondo e anche se conciliarlo con quello di scrittore si sta rivelando sempre più difficile, credo che non lo abbandonerò mai.

Lavoro per una catena di librerie e la mia, in particolare, si trova dentro un centro commerciale, in provincia; come dico sempre: sono in trincea! Eppure, la libreria, malgrado tante difficoltà, ha trovato una suo equilibrio economico: insomma, gli affari vanno benone! Questo dipende dall’azienda, tanto per cominciare, che ha deciso di investire sui librai, e non sui commessi: i lettori avvertono la differenza. Il clima umano che si respira nella mia libreria, inoltre, il rapporto strettissimo con il territorio, ha fatto il resto. Lavorare sulla spersonalizzazione per abbassare i costi di gestione ha finito per rivelarsi un clamoroso autogol. E molte aziende stanno ritornando sui loro passi.   

 

E meno male!

La tua ultima opera − stavolta un romanzo, Tra le macerie − narra una storia emblematica del disagio di una generazione per la quale è tutt’altro che scontata un’occupazione che costituisca naturale sbocco degli studi fatti. Una cosa molto interessante è che, accanto a personaggi immaginari, nel romanzo troviamo Raffaele La Capria, lo scrittore. È uno degli autori che ami? E quali altri autori italiani o stranieri ti piace leggere?

Tra le macerie è un romanzo che racconta la vita di un giovane precario, questo sì. Ma il libro si rivolge a una schiera ben più ampia di lettori poiché il tema che affronto va al di là del problema lavorativo, per quanto drammatico, delle nuove generazioni. Ho scritto questo romanzo perché mi sembrava emblematico di quest’epoca un altro tipo di precariato, un precariato che definirei esistenziale. In breve, è un libro che racconta la tensione nervosa, la concentrazione con cui ci dedichiamo alla realizzazione dei nostri obiettivi, spesso raggiunti tra mille difficoltà, compreso il tessuto urbano entro cui ci muoviamo; e umano: l’indifferenza degli altri è il male del secolo. Ma gli altri siamo noi, completamenti rivolti su noi stessi, nella nostra quotidiana lotta per la sopravvivenza. Naturalmente, ci sono stati periodi più bui, dove la lotta per la sopravvivenza si concentrava nella ricerca di un tozzo di pane. Oggi la sopravvivenza si è spostata su binari esistenziali, il cibo di cui siamo alla ricerca è la necessità di esistere agli occhi degli altri.

La Capria per me è un punto di riferimento fondamentale. Il lavoro che ho fatto sul linguaggio nasce dall’esempio che la sua scrittura ha rappresentato per me e per tanti altri scrittori italiani: un esempio straordinario di semplicità, leggerezza e etica letteraria. Mentre la sua presenza all’interno del romanzo nasce da un altro genere di riflessione. Se ci pensi, la mia è la prima generazione che si è misurata con le generazioni precedenti di scrittori attraverso il filtro dei mass media e dell’industria culturale in particolare. Filtro del quale troppe volte ci si è serviti per valorizzare fino all’esasperazione la portata di tanti autori, non so quanto per celebrarli e quanto per aumentarne le vendite. Fino a erigere, in ogni caso, un muro vero e proprio tra la mia generazione e il passato, annullando la possibilità di un confronto costruttivo con gli autori di un tempo; recidendo il filo per quanto sottile che naturalmente unisce una generazione all’altra. Il numero di saggi che sono riservati agli autori del nostro ‘900 sono talmente numerosi da lasciare tramortito un giovane autore; impedendogli la possibilità di rischiare, di osare, perseguitato com’è dal confronto con dei nomi che nel frattempo, oltre i loro indubbi meriti, sono entrati nel mito fino a diventare di un’invadenza straordinaria, fino a entrare nelle storie dei nuovi autori. È un modo, dunque,  per esorcizzare questa presenza costante, per tentare di uscire dal giogo della letteratura attraverso il gioco con la letteratura.

Circa le mie letture, prediligo su tutto la letteratura italiana del primo e secondo Novecento. Da Comisso a Parise; poi Bianciardi, Testori, Silvio D’Arzo e Moravia, Piero Chiara e Enrico Pea, Arturo Loria, il Borgese di Rubè, e potrei andare avanti per ore: il Novecento italiano non teme il confronto con nessun’altra letteratura. Compresi i contemporanei: checché se ne dica, la letteratura italiana contemporanea gode di ottima salute. Cartongesso di Maino è solo l’ultimo di tanti esempi: Nicola Lagioia, Luca Ricci, Giorgio Vasta, Giorgio Falco, Pecoraro; due autori che hanno pubblicato come me per l’editore romano Gaffi sono un altro esempio: Davide Orecchio e Giuseppe Munforte, quest’ultimo candidato allo Strega. 

 

Di Munforte ho letto La prima regola di Clay e mi è piaciuto molto.

A cosa stai lavorando adesso?

A un libro sulla generazione dei padri. È essenzialmente un confronto con la mia generazione, sullo sfondo degli anni ’70, e degli anni ’80; tentando di andare oltre i cliché, e le posizioni assunte da una classe di intellettuali che ha finito per fornire al resto del Paese una memoria collettiva e storica: ecco, voglio raccontare la storia dal punto di vista degli altri.

 

Grazie, Davide, per il tuo tempo e le tue risposte.

Rosalia Messina

26 luglio 2014
 
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