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Conversazione con Luca Casadio e Massimo Giuliani, autori di “Madri”

Casadio e Giuliani, psicoterapeuti, nel libro Madri (Castelvecchi) affrontano in modo nuovo un tema dibattuto come pochi, coniugando l’approccio narrativo con quello saggistico.

 

Dopo aver letto con entusiasmo crescente il vostro libro vi chiedo di rispondere entrambi alle mie domande. Credo che possa risultare interessante per chi legge ascoltare in contemporanea i vostri punti di vista. E la prima cosa che voglio domandarvi è, provocatoriamente: perché è necessario parlare delle madri (che è un modo di chiedere, in fondo: perché avete scritto questo libro)?

L.C.: Intanto ho pensato di scriverlo perché sto aspettando un bambino, è il mio primo e sono molto emozionato. Credo che più che parlare di madri in generale sia necessario rileggere le teorie che riguardano la maternità e la cura dei bambini. Abbiamo riportato diverse storie di madri proprio con questo obiettivo, per ritornare alle “madri reali”, all’esperienza di coppie e di donne del mondo di oggi.

 

M.G.: Diciamo innanzitutto che tutto nasce da un’idea di Luca, che me l’ha proposta forse un paio di anni fa. L’ho trovata ottima per diversi motivi.

Per esempio, in quel momento si parlava molto dei padri, sui quali da tempo si accatastava una letteratura psicologica piuttosto cospicua. E lo si comprende, perché la figura e il ruolo del padre hanno fatto i conti con parecchi dei cambiamenti che abbiamo vissuto.

Così non solo ci sembrava il momento buono per guardare anche alle madri, ma anche per dire la nostra su alcune questioni, direi, di metodo che quell’abbondanza di libri e conferenze sui padri sollevava. E cioè, per esempio: mettere sotto il microscopio il padre o la madre in quanto tali porta il discorso su un piano astratto e, come dire?, acontestuale. Allora noi abbiamo scelto un registro narrativo: abbiamo raccontato storie in cui c’è una madre perché c’è un figlio (sembra banale, eh?), e perché c’è un padre, e perché ci sono altre figure che condividono la cura del figlio, e anche perché ci sono un’altra madre e un altro padre che hanno generato quella madre. Storie in cui quella storia singola ha senso perché sta in quella rete di relazioni. E ricorriamo con una certa frequenza alla parola “triade” – come dire: una madre non esiste da sola – e all’espressione “funzione materna”, che si riferisce a qualcosa che non è necessariamente esclusiva di un individuo. Una madre sta dentro un contesto, sta dentro delle relazioni: per non dire anche dentro a una cultura che condiziona in qualche misura le aspettative che abbiamo su di lei. Ecco, forse abbiamo pensato che parlare di storie singole aiuta a non cadere nella trappola del moralismo, nella prescrittività. Non “ecco come dovrebbe essere una madre”, ma “ecco in quanti modi le madri che incontriamo hanno declinato il proprio modo di svolgere quella funzione”. E infatti non abbiamo scritto un libro su “la madre”, ma sulle madri. Non poteva essere diversamente, e per questo il titolo è al plurale.

 

 

Nel vostro libro avete raccolto le testimonianze di alcune persone sui temi della maternità, dell’essere genitori. Storie diversissime fra loro, in qualche modo emblematiche, ciascuna a suo modo. Come avete selezionato – fra tantissime, immagino, con le quali entrate in contatto per ragioni professionali – le storie che formano la parte per così dire narrativa di Madri?

L.C.: Abbiamo cercato di dare proprio il senso della molteplicità, per mostrare tutti i i diversi – potenzialmente infiniti – modi di essere madre. Oggi c’è la necessità di “allargare” il modo di concepire la maternità, di rendere tutte le sfumature di questo particolare compito o missione. E credo che ci siamo riusciti.

 

M.G.: Direi semplicemente perché erano delle belle storie. Se sono emblematiche, come tu dici – e io credo proprio che lo siano – è perché sono tante storie e, tutte insieme, restituiscono un ritratto polifonico, complesso e anche contraddittorio. Poi c’è l’idea splendida che Luca ha avuto: “raccontiamo due madri celebri!”. Io ho raccontato la storia di Bruce Springsteen e della sua famiglia, e del ruolo che ha avuto la madre nella sua storia di resilienza. L’ho scelta perché ho un forte interesse per il personaggio ma anche perché mi sembrava una storia formidabile: se uno psicologo avesse visto Bruce da bambino, con la sua storia familiare, l’avrebbe dato per spacciato. E invece possono accadere delle cose che amplificano le risorse e le possibilità di salvezza, e la madre di Bruce – immigrata di seconda generazione, che rappresenta anche la connessione del figlio con l’Italia – ha avuto a mio avviso una parte importante in quella salvezza.

 

 

È un luogo comune dei più abusati quello sulla difficoltà di essere genitori. Forse – azzardo da profana – più esattamente si dovrebbe dire che è difficile essere educatori. Ma i concetti di educazione e di educatori che significato assumono in un approccio scientifico?

L.C.: L’aspetto più interessante, almeno dal mio punto di vista, è che per essere genitori, ancor più che educatori, si devono sapere usare alcuni “strumenti”. Strumenti che non sono astratti, che si possono insegnare fino ad un certo punto proprio perché sono concreti, basati sull’azione. Questi strumenti sono: il patrimonio emotivo, gli atteggiamenti dei genitori, il loro modo di instaurare relazioni, d’intessere uno scambio (soprattutto affettivo), un dialogo con gli altri. Per diventare genitori così si devono usare le proprie esperienze e le proprie caratteristiche come dei modi relazionali di rispondere ai bisogni e alle necessità di un bambino.

 

M.G.: Checché se ne dica, la scienza delle relazioni umane, la scienza che cerca di rendere conto delle vite e delle esperienze delle persone, la stessa scienza che sostiene la psicoterapia e la relazione educativa, è una scienza imperfetta e inesatta. È affidabile, ma lo è solo nella misura in cui c’è qualcuno che si assume una responsabilità. Qualcuno che conosca quella scienza e sappia usarla ma anche metterla fra parentesi, per dire non “ho fatto questa scelta perché me lo prescrive la scienza”, ma: “ho fatto questa scelta perché in quella relazione – umana, educativa, terapeutica – unica e diversa da tutte le altre, ci sono io e mi assumo una responsabilità”. È una questione un po’ paradossale, insomma…

 

 

Cattive madri, madri coccodrillo, madri frigorifero: nella parte iniziale del libro c’è un’interessante carrellata su tutte le teorie grazie alle quali essere madre ha assunto i contorni di un compito terrificante e ingestibile. L’errore è sempre in agguato, ogni disagio dei figli dipende dalla madre e dal suo modo di relazionarsi con loro. Possiamo dare un incoraggiamento a tutte le donne atterrite dal fardello del dover essere perfette, di non poter sbagliare? Come fare per essere responsabili senza sentirsi oppresse e, a propria volta, diventare opprimenti?

L.C.: Credo che le madri debbano cercare meno delle teorie astratte su come essere genitore, ma usare il tempo, per esempio l’attesa di un bambino, per riflettere sulla propria esperienza, sulla propria vita. Prima, nella famiglia di origine, poi, la formazione della coppia e, in ultimo, anche la relazione con il bambino. Ogni modalità pedagogica deve essere “incarnata”, anche se, purtroppo, i libri sulla maternità, i corsi di preparazione al parto (che ho fatto per anni come psicologo della USL) non fanno altro che proporre dei modi astratti e normativi di come si dovrebbe essere madre. Ogni madre deve trovare il suo modo, può trovare delle risorse proprio nella sua vita, nel suo modo di creare con gli altri dei legami. È proprio questo legame l’ingrediente più importante nello sviluppo del bambino, quello che fa crescere un bambino e che lo rende, col tempo, un individuo, una persona.

 

M.G.: Nel libro passiamo in rassegna quelle teorie anche per prendere dichiaratamente la distanza da alcune. La storia della psicologia è punteggiata da teorie che hanno accusato le madri e hanno gettato sulle loro spalle le colpe dei destini dei figli. Prima di domandarci cosa possano fare le madri per sentirsi meno oppresse e opprimenti ci siamo domandati cosa possa fare la psicologia per opprimerle meno. E quello che può fare è, per esempio, provare a ragionare sulle proprie teorie lasciandosi accompagnare dalla realtà, oltre a leggere la realtà in base alle teorie.

Come liberarsi dal fardello di dover essere “perfette”? “Perfetto” vuol dire “compiuto”, “che basta a se stesso”. Ecco, quello che direi a una madre, come lo direi a chiunque, è che essere perfetti è un’illusione. Che combina meno pasticci una persona imperfetta che una persona che vuol fare da sé, che non chiede mai aiuto a chi ha vicino.

 

 

Una domanda che va incontro a una curiosità dei lettori: com’è stata l’esperienza della scrittura a quattro mani? Era la prima volta per voi, con altri o proprio voi due insieme?

L.C.: Io avevo già scritto un libro con una collega, ma, soprattutto, con Massimo avevamo già scritto un libro insieme, a sei mani, con un altro psicologo ancora. Diciamo che io ho avuto l’idea di questo libro, l’ho pensato e progettato e ho scelto Massimo per completarlo insieme. Per un anno ho cercato di coinvolgerlo, confrontandoci su tutti i temi possibili quando ci riuscivamo. Poi, il progetto ha avuto un’accelerazione, l’editore si è detto disponibile a pubblicarlo e le ultime settimane le abbiamo passate a scrivere moltissimo e a scambiarci testi, mail e telefonate su Skype. È stato anche molto divertente lavorare insieme, ognuno ha aggiunto degli elementi fondamentali e spero che il lettore possa avvertire questa complessità, lo sguardo composito che anima il testo.

 

M.G.: Io leggevo Luca ancora prima di conoscerlo. Poi ci conoscemmo a un festival letterario. Credo che abbiamo un po’ seguito ciascuno l’attività di scrittura dell’altro. Insieme presentammo un mio libro a Roma, e poi abbiamo presentato alcuni dei suoi, fra terapia e narrativa. Così sono stato felicissimo quando è capitata la possibilità di scrivere insieme. La prima volta è stata con un libro che abbiamo scritto con un altro collega, Pietro Barbetta, Margini. Rispetto a questo, era un libro destinato soprattutto a professionisti della psicoterapia.

Scrivere insieme, stavolta, direi che è stato semplice e complesso. Credo di poter dire che abbiamo condiviso delle idee più chiare possibile sul progetto, poi abbiamo lavorato in stretta collaborazione per la parte più “psicologica”, infine abbiamo lavorato con una certa autonomia per la parte narrativa. Questo ha fatto sì che Madri sia un mosaico di stili e climi. Mi piace come è venuto perché è ricco, c’è molto “movimento”, diciamo…

 

 

Grazie per il vostro tempo e le vostre risposte.

 

Rosalia Messina

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