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Conversazione con Antonio Famà

Antonio Famà ha fatto e fa molte cose diverse, per esempio insegnare inglese e lavorare come traduttore. Non sono un albero (AEB Editore) è il suo primo romanzo.

 Antonio, mi piacerebbe lasciare che sia tu a raccontare di te quello che ti va di raccontare, per arrivare poi a parlare della tua scrittura, del percorso che ti ha portato a pubblicare un romanzo.

Ho quarantun anni e non sono del 1977 come per sbaglio è stato scritto sulla quarta di copertina. Degli alberi adoro praticamente tutto. Quando ne trovo uno cavo mi ci infilo dentro!

Da anni ho smarrito la fede e a volte me ne dispiaccio.

Sono imbranatissimo in fatto di tecnologia.

Potendo cambiare mestiere farei il bibliotecario e nessuno mi tirerebbe fuori da lì.

Mi riesce sempre più difficile tollerare quelli che non si aprono al mondo e che hanno una visione ristretta della vita.

Nella mia carriera di studente ho adorato pochissimi insegnanti. Quelli di lettere hanno un posto privilegiato nel mio cuore. Ma anche alcuni altri rimangono modelli di serietà e amore per lo studio e la ricerca.

Non pratico sport perché non so stare in una squadra. Un mio amico del periodo dell’adolescenza una volta mi ha chiamato “animale asociale”. È una definizione che in parte mi si attaglia bene.

Scrivo per tradizione familiare: mio nonno, mia mamma e io. Il primo approccio con la scrittura risale a quando mio padre mi diede possibilità di usare le pareti del corridoio per sperimentare la scrittura e il risultato furono grosse “patate sbadiglianti”! La mia prima poesia, da rinnegare assolutamente, è stata pubblicata quando avevo tredici anni sul quotidiano La Sicilia. Per diversi anni sono stato uno dei poeti della “vara” per la festa di San Giovanni Battista a San Giovanni Galermo il 24 giugno. Componevo poesie e le recitavo sul fercolo davanti all’intero paese. Avevo tra gli undici e i tredici anni. Pensavo che dopo la nascita di Giacomo, mio figlio, avrei smesso di scrivere perché con lui avevo placato un dolore che mi portavo dietro da sempre. Con stupore mi sono accorto che ho bisogno di continuare a scrivere perché scrivere per me è terapeutico.

Sento dire spesso che le donne scrivono soprattutto libri che indagano le relazioni interpersonali, mentre le storie scritte dagli uomini avrebbero trame più dense, con più “fatti” e meno riflessioni e introspezione. Tu, che hai scritto un romanzo che secondo la schematizzazione che ho appena illustrato sarebbe da definire “femminile”, che ne pensi? Esiste davvero una scrittura femminile?

La tua domanda mi riporta alla mente una conversazione che ho avuto qualche sera fa con una mia amica. Lei mi diceva che stava per accingersi a scrivere qualcosa sull’universo femminile che, a suo dire, sarebbe più complesso di quello maschile. La mia domanda è stata: “Conoscendomi, potresti dire che io sono meno complicato di una donna?” La sua risposta è stata che io faccio eccezione! Al di là della battuta che mi darebbe spunto per parlare molto, voglio arrivare subito al nucleo della tua domanda. Chi scrive parte sempre da sé. È inevitabile. Una donna proietterà sé e una porzione del suo mondo nella sua scrittura e la stessa cosa farà un uomo. Il primo materiale certo è quello che attiene alla propria vita. Secondo me, sono il vissuto di ciascuno e la sensibilità di ciascuno a determinare l’acutezza del proprio punto di vista. Io mi sono cimentato con una scrittura alla cui base stanno i rovelli di una donna. Non sono donna, ma ho sempre e solo vissuto con donne. Ho acquisito parte della loro sensibilità e del loro modo di interpretare la realtà. E devo dire che questo mi ha reso più forte degli uomini perché non temo di mostrare i miei sentimenti. So, ad esempio, che posso permettermi anche di piangere in presenza d’altri senza apparire debole. Per me, la debolezza non coincide con le idee preconcette che vogliono un uomo fatto in un modo e una donna fatta in un altro modo. Io sono un essere umano e la debolezza può appartenermi senza vergogna alcuna. Siamo esseri talmente complicati che una schematizzazione simile è improponibile. Per cui, non credo esistano una scrittura femminile e una maschile disgiunte. Esistono gradi diversi di disvelamento del sé. Scrivo perché mi piacerebbe essere amato. E se ho questa necessità devo manifestare al meglio chi sono. Nel mio libro mi sono posto tante domande perché la mia natura è inquisitiva. Sono partito dal mio vissuto, rielaborando un lutto mio e di mia moglie per i bimbi che abbiamo perso. Questo generalmente un uomo non lo direbbe. Io sì.

 Covavi da molto la storia di Marina e delle sue complicate vicende sentimentali? La gestazione è stata lunga, ha richiesto molte revisioni?

Il libro non è stato scritto in poco tempo. Ho impiegato più di sei anni per arrivare alla stesura di quelle pagine, ma la genesi risale a più di un decennio fa. I personaggi principali c’erano già. Era una storia d’amore semplice e romantica. Ero molto più giovane e la vita aveva altre sfumature di colore. A dirti il vero non poteva soddisfarmi una storiella a lieto fine perché la vita, lo so da un’infinità di tempo, non è una storiella che volge spesso al lieto fine. Ognuno di noi se ne dia una definizione personale in mente: nessuno, immagino, ne ricaverà una versione tutta rosa. Quando i colori della mia vita sono cambiati, anche quella storiella ha dovuto adattarsi alla nuova tavolozza

 E veniamo al punto dolente per ogni esordiente. È stato difficile trovare un editore?

Non mi sono affannato molto a cercare qualcuno che mi pubblicasse. A un romanzo precedente a questo, molto più sofferto di questo, è stata negata la stampa. Non sono andato oltre quel singolo editore e ho solo atteso che la mia scrittura evolvesse e che il coraggio di chiamare le cose con il loro nome esplodesse chiaramente. Quando questo è avvenuto, ho solo avuto la fortuna di imbattermi in qualcuno che ha prestato orecchio alle mie parole. E, follemente, mi ha creduto.

 Cosa legge Antonio Famà? Qual è l’ultimo libro che hai letto sentendo che non potevi staccarti dalle sue pagine?

Sembrerà sfoggio di vera rarità, ma il libro che in assoluto mi ha lasciato di più finora è Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Avevo bisogno di verità, chiarezza, di sapere quanto e cosa c’è nel cuore dell’uomo. Dopo più di mille pagine ne avrei volute ancora altrettanto. Il Deserto dei Tartari è stato purtroppo sostituito dal libro che ho nominato per primo. In questo, c’è la visione amara del mondo che mi si confà tanto. Al terzo posto, esiste Vincenzo Consolo e l’amore per ogni singola parola che molti dei suoi libri mi hanno trasmesso. L’ultimo libro che ho letto e che ho divorato, sebbene boccone piccolo piccolo, è stato Il senso di una fine di Barnes. Quando un libro mi dà modo di interrogarmi e di comprendermi, allora è libro il cui acquisto è valsa la pena.

 Quali sono i tuoi progetti letterari?

Attualmente ho scoperto che la crisi della pagina bianca è risolvibile cambiando progetto. Mi spiego meglio. Da tempo ho in mente un romanzo di gran lunga più complicato di Non sono un albero. Complicato non nel senso della trama, ma nell’impegno che mi richiede nell’affrontare le sfide con altri demoni interiori. Non essendo del tutto pronto per questa impresa, ho deciso di non scoraggiarmi e ho iniziato a scrivere racconti di vario genere senza nessun intento particolare. Sembrerà strano, ma questi racconti allo stato presente mi aiutano a concentrarmi meglio sul romanzo che deve ancora maturare dentro di me.

Grazie, Antonio, per il tuo tempo e le tue intense, coraggiose risposte.

 

Rosalia Messina

9 ottobre 2015

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