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Conversazione con Antonio De Palma: i grandi comunicatori e il racconto

Antonio De Palma esordisce nella narrativa con Il primo passo. Storie di vita attraverso la realtà (Giovane Holden Editore, 2016).

Ciao, Antonio, prima ancora di parlare della recente pubblicazione del tuo libro, Il primo passo, voglio invitarti a parlare di questa dimensione narrativa così poco amata (pare) in Italia, il racconto. Ma sono davvero i lettori ad amarla poco, mi chiedo? Sarebbe interessante sapere se i racconti degli autori stranieri, tradotti e pubblicati in Italia, siano poi davvero poco letti (per dirla brutalmente nell’ottica degli editori, se si vendano poco).

Ciao, Rosalia. Lasciami dire che quando ho scoperto questa grande “mancanza di affezione” nei confronti dei racconti nel nostro paese, qualche dubbio mi è venuto. Gli italiani posseggono in media circa 4 cellulari a testa, il che significa che ognuno di noi, contando bambini e persone un po’ più in là con l’età, ha posseduto almeno dai due ai sei cellulari nella propria vita. Siamo un popolo di comunicatori! In cima alla lista per numero d’iscritti ai social media ci siamo sempre noi (in Europa, naturalmente), e il rapporto è sempre altissimo.

La domanda, quindi, nasce spontanea: se ci piace comunicare così tanto e ad una velocità tanto alta come quella del web, perché non scegliere i racconti come forma letteraria d’eccellenza?

Intendiamoci, non immagino un’ “Era letteraria” dedicata alla novella, anche se mi risulterebbe facile immaginare come un nativo digitale possa essere attratto da una piccola storia, magari letta tra una fermata e l’altra della metro, anche sullo schermo del cellulare, perché no.

 

E parliamo di un altro tasto dolente: la ricerca di un editore. Scrivere un libro significa impiegare il proprio (di solito scarso) tempo libero (libero dalla necessità di guadagnarsi il pane in altro modo), metterci la propria passione, le cose in cui si crede, che si amano e si odiano, insomma la propria visione del mondo. Poi, una volta che il libro è finito, che è stato rivisto e limato e lasciato riposare e rivisto ancora e rilimato, si cerca l’editore. E qui comincia un’odissea di invii, rifiuti e più spesso mancate risposte. Dando per scontato che molta spazzatura arrivi  alle case editrici, qualcosa di buono arriverà pure, ma probabilmente nessuno la leggerà. Poi trovi qualcuno che apprezza il tuo libro. Ora, tutti sappiamo che si scrive molto e si legge poco, che gli editori sono una legione enorme ma pochissimi garantiscono che il libro arriverà alle librerie e sarà letto, che agli esordienti spesso si chiedono “contributi” alle spese. Vuoi parlare della tua avventura?

Credo proprio che tu abbia utilizzato il termine giusto: “avventura”. Tutto è iniziato quando fui convocato a Lucca per il Premio Letterario Giovane Holden, che dà appunto il nome alla casa editrice. Di lì a poco, ricevetti una proposta di pubblicazione con un contratto “in progress”, ossia un accordo che permette di avere un revisore alle calcagna mentre l’opera è ancora in fase di stesura. Io, d’altro canto, non cercavo un editore, né tantomeno qualcuno che volesse del denaro per pubblicarmi. Giovane Holden Edizioni soddisfaceva questo requisito che penseremmo essere di scarsa importanza, ma che in realtà oggi non è più banale.

Bene, iniziamo.

La forma di contratto scelta da me fu differente: non avevo bisogno di qualcuno che mi spingesse a scrivere, in più avevo già una bella raccolta di racconti pronta da sottoporre. Nel frattempo mi ero già trasferito negli USA, per cui ti lascio immaginare la facilità con cui le comunicazioni erano svolte.

Ebbene, il rapporto s’invertì presto: avere un contratto in progress con questo editore sarebbe stato un incubo, poiché già con quello standard le cose andavano molto a rilento. Mi limiterò solo a dirti che la casa editrice ha messo il codice ISBN e la stampa, che comunque non è poco; ma a che prezzo? Continui scambi di email e risposte scortesi, promozione completamente finanziata e gestita dal sottoscritto, ma alla fine copie esaurite più volte online e durante la prima presentazione in libreria. Tutto, consentimi di dirlo senza il sorriso sulla bocca, per merito di chi ti parla (e di mia moglie, il mio più grande sponsor insieme alla mia famiglia).

 

E adesso è il momento di spiegare questo bel titolo (anche se i tuoi racconti sono molto poetici e la poesia non può e non deve essere “spiegata”) ai lettori di Libreriamo. È un titolo evocativo e sarebbe interessante conoscere le ragioni della scelta.

È tutto dedicato alle emozioni: il primo passo in qualsiasi cosa che rimane stampato nell’anima. Le prime volte, insomma. Amore, paura, morte, nascita, disperazione, cambiamenti. Corriamo senza sosta senza mai goderci il vento sulla faccia, in più il nostro stile di vita non accenna a cambiare, o almeno io non credo che possa succedere di qui a breve. La soluzione? Condensiamo i bei momenti, cristallizziamoli in una storia e allarghiamone i lembi fino a vederne la trama. Abbiamo ottenuto un momento dedicato a noi, un racconto.

 

Uno scrittore è sempre − anche e soprattutto e prima ancora – un lettore. Cosa leggi, Antonio, di preferenza? Cosa hai letto di recente? Ti va di raccontare un’esperienza di lettura entusiasmante e una deludente?

Ultimamente sto facendo un doppio salto: linguistico e stilistico. Ho iniziato a leggere la fiction americana in lingua originale. Un po’ per ovvi motivi logistici, ma soprattutto perché ho voglia di rafforzare le intelaiature tecniche sottese all’arte del raccontare. Negli USA sono i maestri della scrittura d’autore per TV e film, ma ultimamente il rapporto tra letteratura e intrattenimento sta generando qualcosa di nuovo, qualcosa di forte che colpisce anche chi non ha mai preso un libro in mano. Stiamo assistendo forse a una rivoluzione silente – e per la prima volta attiva – di democraticizzazione della letteratura: chi non leggeva prima ora non solo ne ha la possibilità economica e culturale, ma anche lo stimolo sociale.

TV e film portano linfa nuova al libro stampato (o digitalizzato)? A me sta benissimo, la spocchia non ha mai fatto bene alla cultura.

 

Libri di carta, libri digitali: ha davvero senso chiedersi cosa sia “meglio” e “peggio”? Un libro non va identificato semplicemente con il suo contenuto, con la storia o le storie che racconta, con i versi che un’anima poetica ha plasmato, con quell’idea del mondo che chi scrive comunica, piuttosto che con il contenitore?

Sono assolutamente d’accordo. Leggo su carta e su e-book, avendo la possibilità di seguire il Premio Strega anche dagli USA. Non bisogna rinunciare all’una o all’altra forma. Sono due strumenti aventi in comune lo stesso scopo.

 

Collabori da tempo con il magazine LetteraTu, com’è nata questa iniziativa?

Dall’idea mia e di mio cugino e mentore Gianluca Riccio. LetteraTu è la letteratura con il pubblico nel nome. Tutti possono avere una voce, è la letteratura raccontata, scritta, letta, urlata e prodotta dal pubblico. Nessuna recensione è stata mai fatta a pagamento. Ci si mantiene con qualche banner pubblicitario e con donazioni (poche). Si sa che la letteratura non è un affare da milionari. E va bene così.

Progetti letterari in cantiere?

Una non-raccolta di racconti.

 

Grazie, Antonio, per il tuo tempo e le tue risposte.

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