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Confrontarsi con gli Antichi Maestri

E’ sempre difficile il confronto con gli antichi maestri. Ogni volta che ci rapportiamo ad un individuo che è riuscito ad eccellere in qualcosa, nella letteratura o nell’arte specialmente, che è riuscito a permanere oltre il suo tempo terreno, a lasciare un segno di sè ai posteri...

“E’ dagli Antichi Maestri che io devo andare per poter continuare a esistere, proprio da quei cosiddetti Antichi Maestri che a dire il vero detesto da tempo, da decenni, infatti, non c’è niente che io detesti di più di questi cosiddetti Antichi Maestri del Kunsthistorisches Museum e degli Antichi Maestri in generale [..] pur essendo loro, gli Antichi Maestri, quelli che mi tengono in vita”
T. Bernhard

E’ sempre difficile il confronto con gli antichi maestri.

Ogni volta che ci rapportiamo ad un individuo che è riuscito ad eccellere in qualcosa, nella letteratura o nell’arte specialmente, che è riuscito a permanere oltre il suo tempo terreno, a lasciare un segno di sè ai posteri, inconsciamente ci stiamo rapportando al nostro passato e alla nostra possibilità di lasciare una traccia.

Veniamo colpiti dalla bellezza dei quadri dei grandi pittori, dalla perfezione delle statue del passato, dalla profondità del pensiero di filosofi e scrittori. Ci domandiamo cosa possa avere avuto in più di noi quell’individuo che è riuscito nella sua vita a generare qualcosa di così resistente al tempo, di così bello e unico. Ci confrontiamo, magari inconsciamente, con la nostra paura di morire senza lasciare un segno del nostro esserci stati.

Il testo di Thomas Bernhard “Antichi Maestri” non è un testo semplice. Quando l’ho proposto al mio gruppo di libroterapia qualcuno mi ha fatto riflettere sul fatto che, in estrema sintesi, si tratta della storia di una persona che dà un appuntamento ad un amico per invitarlo a teatro. Ed è vero. Se rivolgiamo la nostra attenzione all’azione non ci troviamo altro che questo, in una dilatazione temporale che nessuno di noi penserebbe mai di concedersi nella frenesia dei nostri ritmi moderni.

Ma dentro quel centinaio di pagine c’è molto di più: ci sono le opinioni di un uomo addolorato dal lutto sulla vita, sui comportamenti umani, sui ruoli sociali e, come il titolo lascia pensare, sugli Antichi Maestri. Che nel testo di Bernhard, a dire il vero, sono spesso chiamati “i cosiddetti Antichi Maestri”.

Chi è Reger, il protagonista? Perchè le sue opinioni sembrano essere così importanti per gli altri personaggi, tanto da far sì che essi lo citino continuamente? Perchè questo signore silenzioso che siede per ore, con metodicità, davanti al quadro di Tintoretto “Uomo dalla barba bianca”, viene tenuto in così grande considerazione?

Reger ha una opinione su tutto, ama esporre ai suoi interlocutori privilegiati le sue idee, con convinzione, con la passione di chi crede fermamente in ciò che dice, senza paura di esporre i propri giudizi, senza pensare alla convenzione sociale dell’uso dei condizionali. Reger sentenzia, pontifica, afferma (“Quello che pensiamo vogliamo anche dirlo, disse Reger, e in fondo, finché non l’abbiamo detto non ci diamo pace, e se non diciamo quello che pensiamo il pensiero ci soffoca”).

Reger critica, ripete le sue critiche e gli altri personaggi ce le ripetono. Dopo le prime pagine sembra che a Reger, come qualcuno mi ha detto, tutto generi nausea.

Davanti a questo tipo di protagonista può venire la voglia di reagire, bloccando la sua negatività giudicandolo a nostra volta, dicendo che è ripetitivo e ostico. Può venire la voglia di saltare qualche pezzo di lettura, perché il testo spesso si ripete con le stesse parole esatte, invogliati anche dall’andare a cercare nella pagina successiva un pò di azione. Ma l’azione non c’è. E Bernhard ci costringe a fare i conti con la noia, con cosa sia per noi, con la nostra incapacità di fermarci e riflettere. Di fermarci ed osservare, come Reger osserva il quadro di Tintoretto. Fa bene, conoscere la propria noia. I greci dividevano la vita in ozio e negozio per fare in modo che l’individuo ne traesse benessere. Ma il loro ozio era un ozio di dialogo profondo con se stessi: il corpo smetteva di fare e si fermava, mentre la psiche era libera di vagare e produrre pensieri, immagini, riflessioni. Oggi, quello che noi chiamiamo riposo, o l’anglofono relax, è troppo spesso uno spegnersi anche psicologico: dal fruire passivo dei media, al mero far nulla. Questo non è generativo per il nostro inconscio e non ci aiuta a fare anima.

Reger ha un comportamento singolare, certamente, è il protagonista perfetto per una commedia. Ma è anche un uomo che pensa e che solo dopo la metà del libro ci dice, mentre parla di altro, quale sia il suo dolore, quale sia l’origine del suo comportamento singolare. All’inizio il narrato ci lascia intuire che Reger si sieda sulla panca della sala bordone davanti all’uomo dalla barba bianca di Tintoretto un giorno si ed uno no, solo perché in quella stanza ci sono la luce perfetta e la temperatura perfetta di 18  gradi che lo aiutano a pensare per poi poter scrivere le sue recensioni musicali per il Times.

Questo non regge, è troppo assurdo, ce lo fa apparire come un personaggio eccentrico. Solo dopo molte pagine, nascosto tra altri narrati, ci arriva il messaggio che su quella panca nella Sala Bordone Reger aveva conosciuto sua moglie. La moglie che è morta un anno prima e che Reger descrive come fondamentale per la sua vita. Certamente il testo apre a molte riflessioni, dal nostro rapporto con l’infanzia (di cui Reger dice “è un inferno”, vedete, lo cito anche io), agli antichi maestri (“gli Antichi Maestri mi ripugnano profondamente eppure continuo a studiarli”), all’insegnamento, al dare o no importanza al parere degli altri (“non mi interessa quello che dice la gente, dico, non mi interessa, mi lascia indifferente, e intanto non faccio altro tutto il tempo che bruciare dal desiderio di saperlo”), agli austriaci (la storia è ambientata al Kunsthistorisches Museum di Vienna), a filosofi famosi (tra cui Heidegger e Kierkegaard), a musicisti (tra cui Wagner), alla tecnologia. Ma il tema fondamentale, a mio avviso, rimane la domanda se l’arte possa o meno compensare i dispiaceri della vita (“Io mi sono infilato di soppiatto nell’arte per sfuggire alla vita”).

30 gennaio 2014

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