Da quando tengo dei corsi di formazione in Libroterapia a Firenze mi capita spesso di ricevere email da persone che vorrebbero diventare libroterapeuti. La maggior parte di queste persone non sono però figure professionali abilitate all’esercizio della psicoterapia: si tratta di laureati in scienze della formazione, operatori sociali, infermieri, librai e non solo. Mi sono detta che fosse il momento di fare un pò di chiarezza su chi sia il libroterapeuta (o biblioterapeuta che dir si voglia ) e su quali siano i requisiti formativi necessari per poter tenere dei gruppi in questo settore.
Non voglio criticare la passione che queste persone hanno per la lettura e nemmeno sminuire figure professionali diverse dalla mia. Mi piacerebbe, però, che ci fosse un po’ di chiarezza, se non altro per tutte quelle persone che decidono di intraprendere un percorso di gruppo con l’obiettivo di migliorare il loro benessere psicologico.
Leggere fa bene, ormai di questo siamo convinti: ci sono ricerche in merito e ogni lettore ha esperito il sollievo, il conforto, la compagnia di un buon libro.
Ci si domanda addirittura se leggere faccia male (è di questi giorni la notizia del “bollino” rosso richiesto alla Columbia per le opere di Ovidio in quanto rievocanti traumi e mi sono già espressa altrove su questo), quindi è collettivamente accettato che la lettura abbia un effetto sulla psiche.
Ma leggere non è una forma di terapia. Mi spiego meglio: la terapia ha dei presupposti e delle metodologie che necessitano che chi la applica abbia conoscenze adeguate, non solo per avere chiaro il percorso, ma anche per contenere, tutelare, salvaguardare la correttezza del cammino. Proporre un libro ad un gruppo e facilitare la discussione è ciò che normalmente si fa nei gruppi di lettura, che a loro modo fanno “bene” ai partecipanti (la condivisione, la compagnia), ma che di certo non fanno terapia.
Il libroterapeuta non si ferma alla gestione della comunicazione del gruppo e alla proposta della lettura: si è formato su una modalità di guardare all’uomo che gli permette di avere in mente un filo rosso sui bisogni della psiche, di predisporre dei passi sensati e di creare quello spazio di condivisione che prende la lettura come pretesto ma riesce poi a scendere molto più nel profondo.
Essere un lettore, conoscere la letteratura, sono condizioni necessarie per il libroterapeuta, ma affatto sufficienti. La scelta di un libro da assegnare deve essere guidata da una riflessione sul senso di quella lettura, da una ipotesi dei suoi effetti sulla psiche dei partecipanti, da una previsione degli esiti gruppali e anche dei possibili bisogni di contenimento.
Cito spesso, nei miei seminari, Dostoevskij che ne “L’Idiota” fa dire al signor Lèbedev, tra il serio e il faceto: “Ho cominciato a curarla con la lettura dell’Apocalisse” riferendosi agli scatti d’ira di Natàsia Filippovna, definita “una signora dalla immaginazione irrequieta”. In letteratura si trovano spesso asserzioni di questo genere, da prendere per il giusto verso: davvero non basta desiderarlo o sentirsi in grado per poterlo fare.
Riflettendo sui termini, proporrei la distinzione tra “libroterapeuti’ (coloro che sono abilitati all’esercizio della psicoterapia e usano pienamente il metodo libroterapico) e “libroterapisti”, come potremmo chiamare tutti coloro che vogliono lavorare nell’ambito della libroterapia ma non sono dei terapeuti. Due professioni diverse, due paradigmi diversi, due ambiti diversi: ma una distinzione del genere è già stata applicata in musicoterapia e presupporrebbe comunque dei percorsi di studio specifici anche per il libroterapista. Insomma, la passione, da sola, non basta.
Rachele Bindi
3 giugno 2015