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Camillo Sbarbaro, le poesie più belle

Oggi ricorre l'anniversario della scomparsa di Camillo Sbarbaro, il "poeta delle piccole cose" amico di Montale. Ecco le sue poesie più belle

MILANO – La voce di Camillo Sbarbaro (12 gennaio 1888 – 31 ottobre 1967) è inconfondibile all’interno del panorama poetico del Novecento. Ligure come Montale, e per questo suo carissimo amico (tanto che Montale gli dedicò una sezione della sua raccolta Ossi di seppia), Camillo Sbarbaro si distingue per essere un”poeta delle piccole cose”. La sua poesia è un inno alle esperienze quotidiane, alle piccole gioie della vita, agli istanti fugaci delle giornate. Questa “predilezione per le esistenze in sordina” , nelle sue parole, traspare anche dal profondo amore per le forme nascoste della natura che animava Sbarbaro, che oltre a essere poeta è stato uno dei più grandi esperti di licheni al mondo.  “Gli incospicui e negletti licheni, a salutarli a vista per nome, pare di aiutarli a esistere”. Il lichene però, per quanto piccolo, è tenacissimo. Vive ovunque. “Non lo scoraggia il deserto; non lo sfratta il ghiacciaio… Teme solo la vicinanza dell’uomo… Il lichene urbano è sterile… Il fiato umano lo inquina”. Le sue raccolte di poesie portano tutte dei nomi che testimoniano l’attrazione di Sbarbaro per gli aspetti delicati della natura, umana e vegetale: Resine (1911), Pianissimo (1914), Rimanenze (1955), Primizie (1958). Per ricordarlo, abbiamo raccolto alcune delle sue poesie più belle:

Ora che sei venuta

Ora che sei venuta,
che con passo di danza sei entrata
nella mia vita
quasi folata in una stanza chiusa –
a festeggiarti, bene tanto atteso,
le parole mi mancano e la voce
e tacerti vicino già mi basta.

Il pigolìo così che assorda il bosco
al nascere dell’alba, ammutolisce
quando sull’orizzonte balza il sole.

Ma te la mia inquietudine cercava
quando ragazzo
nella notte d’estate mi facevo
alla finestra come soffocato:
che non sapevo, m’affannava il cuore.
E tutte tue sono le parole
che, come l’acqua all’orlo che trabocca,
alla bocca venivano da sole,

l’ore deserte, quando s’avanzavan
puerilmente le mie labbra d’uomo
da sé, per desiderio di baciare…

 

Talora nell’arsura della via

Talora nell’arsura della via
un canto di cicale mi sorprende.
E subito ecco m’empie la visione
di campagne prostrate nella luce…
E stupisco che ancora al mondo sian
gli alberi e l’acque,
tutte le cose buone della terra
che bastavano un giorno a smemorarmi…

Con questo stupor sciocco l’ubriaco
riceve in viso l’aria della notte.

Ma poi che sento l’anima aderire
ad ogni pietra della città sorda
com’albero con tutte le radici,
sorrido a me indicibilmente e come
per uno sforzo d’ali i gomiti alzo…

 

La bambina che va sotto gli alberi 

La bambina che va sotto gli alberi
non ha che il peso della sua treccia,
un fil di canto in gola.
Canta sola
e salta per la strada: ché non sa
che mai bene più grande non avrà
di quel po’ d’oro vivo per le spalle,
di quella gioia in gola. A noi che non abbiamo
altra felicità che di parole,
e non l’acceso fiocco e non la molta
speranza che fa grosso a quella il cuore,
se non è troppo chiedere, sia tolta
prima la vita di quel solo bene.

 

Mi desto

Mi desto dal leggero sonno solo
nel cuore della notte.

Tace intorno
la casa come vuota e laggiù brilla
silenzioso coi suoi lumi un porto.
Ma sì freddi e remoti son quei lumi
e sì grande è il silenzio nella casa
che mi levo sui gomiti in ascolto.

Improvviso terrore mi sospende
il fiato e allarga nella notte gli occhi:
separata dal resto della casa
separata dal resto della terra
è la mia vita ed io son solo al mondo.

Poi il ricordo delle vie consuete
e dei nomi e dei volti quotidiani
riemerge dal sonno,
e di me sorridendo mi riadagio.

Ma, svanita col sonno la paura,
un gelo in fondo all’anima mi resta.
Ch’io cammino fra gli uomini guardando
attentamente coi miei occhi ognuno,
curioso di lor ma come estraneo.
Ed alcuno non ho nelle cui mani
metter le mani con fiducia piena
e col quale di me dimenticarmi.

Tal che se l’acque e gli alberi non fossero
e tutto il mondo muto delle cose
che accompagna il mio viver sulla terra,
io penso che morrei di solitudine.

Or questo camminare fra gli estranei
questo vuoto d’intorno m’impaura
e la certezza che sarà per sempre.

Ma restan gli occhi crudelmente asciutti.

 

 Al padre

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi un uomo estraneo
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
E subito la scala tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiavi al muro.
Noi piccoli dai vetri si guardava.

E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella, bambinetta ancora,
per la casa inseguivi minacciando.
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
t’eri visto rincorrere la tua
piccola figlia e, tutta spaventata,
tu vacillando l’attiravi al petto
e con carezze la ricoveravi
tra le tue braccia come per difenderla
da quel cattivo ch’eri tu di prima.

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre…

Voze

Voze, che sciacqui al sole la miseria
delle tue poche case, ammonticchiate
come pecore contro l’acquazzone;
e come stipo di riposti lini
sai di spigo, di sale come rete;

– nell’ombra dei tuoi vichi zampa il gallo
presuntuoso; gioca sulla soglia
il piccolo, con dietro il buio e il freddo
della cucina dove su ramaglie
una vecchia si china ad attizzare;
sulle terrazze splende il granoturco
o rosseggia la sorba; nel coltivi
strappati all’avarizia della roccia
i muretti s’ingobbano, si sbriciola
la zolla, cresce storto e nano il fico –

in te, Voze, m’imbatto nel bambino
che fui, nel triste bimbo che cercava
in terra mele mézze per becchime
buttate, tratto dall’oscuro sangue
a mordere ai rifiuti;
nel cattivo celato dietro l’uscio
che godeva d’udirsi per la casa
chiamare da colei che lo crebbe
– e si torceva presso lui non visto,
la povera, le mani e supplicava
che s’andasse con pertiche alla gora.
Quando bevuto egli abbia ad ogni pozza
guasta,
più nessuno lo cerchi per la casa
vuota,
come in madre in te possa rifugiarsi.

Se l’occhio che restò duro per l’uomo
s’inteneriva ai volti della terra,
nella casa di allora che inchiodato
reca sull’uscio il ferro di cavallo
portafortuna,
sérbagli sopra i tetti la finestra
che beve al lapislazzulo laggiù
del mare, si disseta
alla polla perenne dell’ulivo,

Voze, soave nome che si scioglie
in bocca…

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