“Aysuun, figlia della steppa”, perché è un libro necessario da leggere

6 Aprile 2025

Per chi vuole conoscere la cultura nomade, consigliamo di leggere il libro "Aysuun, figlia della steppa" dello scrittore francese di origini armene Ian Manook

Aysuun, figlia della steppa, perché è un libro necessario da leggere

Per chi si vuol avvicinare alla cultura nomade della Mongolia il libro da leggere è “Aysuun, figlia della steppa” di Ian Manook, Fazi editore. Dopo la Mongolia immensa, spirituale e nera del commissario Yeruldegger, cui ha dedicato una trilogia, Ian Manook, scrittore francese di origini armene, racconta la storia della vendetta di Aysuun.

Aysuun, figlia della steppa

Un capitolo poco noto della storia: la Repubblica Popolare Mongolica

Siamo nel 1930 e i sovietici lanciano una “campagna di pacificazione” per sradicare la cultura nomade nei territori della Mongolia e della Tuva, già provati dalle condizioni naturali avverse: i dzud bianchi con i loro interminabili venti glaciali, i dzud neri di canicola da screpolare la steppa, cui seguono le requisizioni arbitrarie dei russi e le confische dei soldati, la tassa del lavoro del kolchoz, l’ostilità dei mongoli.

I russi, in particolare, compiono un vero e proprio genocidio: saccheggiano le yurte, massacrano i bambini, uccidono chiunque si metta sulla loro strada. Quando una brigata di soldati assale il loro campo, la tredicenne Aysuun e sua madre sono le uniche a sopravvivere. Venticinque anni dopo, Aysuun incrocia di nuovo lo sguardo del suo aguzzino: è il colonnello Kariakin, venuto a prendere il comando di una fortezza nella steppa e da quel momento la missione della donna è la vendetta.

Aiutata dal suo uomo, Tumur, ruba Tara, il purosangue prediletto di Kariakin, per spingerlo a seguirla e il colonnello si mette così sulle tracce della donna e dà il via a un temerario inseguimento, che lo condurrà ad attraversare la steppa sconfinata aiutato da un drappello di soldati, mentre la donna è supportata da tutta la sua comunità e soprattutto da una cultura millenaria, intrisa di credenze magiche e di leggende.

La steppa, l’ovoo e il bivacco

La vera protagonista del romanzo è la Mongolia selvaggia, tra bivacchi sotto le stelle e cavalcate senza meta, saggi sciamani e inquietanti superstizioni. Un mondo sconosciuto che tuttavia ci sembra familiare, dove l’unico padrone è la natura incontaminata, dove sole e luna guidano i popoli della steppa e le leggende scandiscono la vita nomade.

Una natura senza confini, spazi infiniti di steppe desolate, non un solo albero e non un cenno di civiltà per centinaia di chilometri: è questo lo spazio dove Aysuun e il colonello si inseguono secondo diverse prospettive. Quella della donna che conosce la distesa infinita, a volte punteggiata da una mandria di cavalli allo stato brado, un gregge di capre, mucche, yak e cammelli.

La donna ascolta la natura, i suoi silenzi e la rispetta. Al contrario, il colonnello la vuole dominare senza conoscerla e in più irride alla tradizione antica di quella terra Particolare rilievo è dato allo sciamanesimo, attraverso il personaggio di Gombo: nei settant’ anni di governo filosovietico i riti erano vietati in maniera crudele. Il territorio nel romanzo appare costellato da ovoo, altari di pietre e rami che segnano, secondo antiche mappe esoteriche, la presenza degli spiriti.

Ogni persona che incontra un ovoo gira tre volte intorno in senso orario e getta una offerta. Secondo lo sciamanesimo ci sono tre livelli di esistenza, la dimensione terrena, il paradiso e l’inferno e la possibilità di interazione tra questi mondi è affidata appunto allo sciamano, che nel romanzo svolge un ruolo chiave. A lui è infatti affidata la funzione di individuare le porte di accesso del mondo inferiore e superiore, dopo un percorso personale stupefacente e sofferto.

E poi c’è il bivacco o casa mobile o yurta: per poter comprendere cosa rappresenta per le popolazioni nomadi del centro dell’Asia bisogna conoscere l’ambiente naturale mongolo per capire lo spazio abitativo della yurta, per percepire il suo vero significato pratico, culturale, sociale, emotivo, simbolico, diventando un vero e proprio rifugio nell’oceano d’erba della steppa.

In un simile contesto naturale la yurta non è una “tenda”, un termine che evoca in noi un senso di precarietà e di fragilità: i bivacchi sono momenti privilegiati, perché sono l’essenza della vita dei nomadi, come dice Aysuun: “Una pietra immobile e millenaria. Il tuo corpo, steso sulla schiena, finisce con l’appartenere alla terra che ti sorregge. Sopra di te, la contemplazione vertiginosa del cielo tempestato di stelle ti aspira oltre ogni limite. E senti di far parte di tutto questo. E se scorgi una stella cadente, ti dici che le nostre esistenze sono proprio così. Frammenti di universo che cadono e si consumano. E scompaiono”.

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