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Ala al-Aswany, lo scrittore egiziano il cui crimine è essere un autore

Dal Medio Oriente una nuova storia di persecuzione e mancanza di libertà d'espressione. Stavolta protagonista uno scrittore egiziano

Se lo scrittore egiziano Ala al-Aswany non farà la terribile fine del giornalista Jamal Khashoggi, potrà ritenersi fortunato. Gli uomini d’ordine e del terrore, istituzionalmente preposti a ‘normalizzare’ i propri Paesi in quella che è la ristrutturazione del Medioriente, non guardano tanto per il sottile. Del principe saudita Mohammed bin Salman conosciamo le gesta. Ancor più sappiamo del presidente cairota Abdel Fattah Sisi, che condivide i suoi crimini con un apparato esecutivo forte di consenso, collusione e paura nel popolatissimo Paese arabo. L’Egitto che Sisi ha creato a immagine della propria ossessione repressiva impedisce da un quinquennio al noto scrittore, riparato anch’egli negli Stati Uniti, di pubblicare qualsivoglia opinione sulla censuratissima stampa locale. Ora l’ennesimo giudice servile mette al-Aswany sotto processo addirittura davanti a un Tribunale militare per aver “insultato” presidente e forze armate in un articolo comparso sulla versione araba del quotidiano Deutsche Welle. Nello scritto l’autore di ”Palazzo Yacoubian” (un’opera tradotta in trentacinque lingue), s’era permesso di criticare alcuni progetti infrastrutturali promossi dall’attuale Capo di Stato.

Appresa la notizia il novelliere non s’è scomposto e ha commentato così: “Il mio solo crimine è essere un autore, esprimere la mia opinione, criticare quel che merita esser criticato. Sono uno scrittore e ciò che scrivo non piace al regime”. Sicuramente nella citazione in giudizio di al-Aswany c’è di mezzo l’ultimo suo romanzo “The Republic, as if” ambientato nella contemporaneità del Paese: la rivolta contro Mubarak, l’elezione del presidente islamico Morsi, il colpo di stato compiuto proprio da Sisi. Un libro totalmente vietato in Egitto. L’intellettuale egiziano non ha mai nascosto il proprio dissenso allo scenario che il Paese vive; in più occasioni ha denunciato la repressione nei confronti degli stessi artisti, molti di loro sono anche blogger.  Verso questo genere d’espressione proprio nei giorni scorsi la magistratura ha espresso un ulteriore giro di vite con censure, disattivazioni forzate, arresti poiché espressioni non consone al consenso obbligato sono considerate un attentato alla sicurezza del Paese, quasi fossero un avamposto per il terrorismo. Il parallelo l’ha avanzato il ministero dell’Interno, cosicché fra i 60.000 prigionieri politici attualmente reclusi c’è chi rischia la condanna a morte per aver “attentato alla sicurezza nazionale”.

Enrico Campofreda

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