“Un grido di luce” traduce con una sinestesia il titolo originario “So I roar“, il romanzo tradotto da Elisa Banfi edizione Nord scritto dall’autrice nigeriana Abi Daré che racconta in parallelo storia di due donne: Tia e Adunni, già protagonista de “La ladra di parole“.
Storia di contrapposizioni
Tia e Adunni si contrappongono e si ritrovano, così come i luoghi del romanzo Nigeria ed Inghilterra, la metropoli Lagos e il villaggio di Ikati, con la duplicazione che sembra essere il fil rouge del romanzo: i due uomini della vita di Tia, i due padri della vita di Adunni; duplice anche il registro linguistico il broken English di chi non ha un’istruzione e la lingua quasi accademica di Tia, entrambe raccontate in prima persona. A specchio sono i segreti delle due protagoniste in parte ignare in parte consapevoli dei lati reconditi delle loro vite: la differenza è che una, Adunni si sta affacciando alla vita adulta, l’altra la sta attraversando.
Intervista ad Abi Darè
Ne parliamo con l’autrice, che presenta per la prima volta in Italia il libro a Pordenonelegge.
Anche se la narrazione è incentrata sulle figure femminili, nel romanzo c’è spazio anche per i personaggi maschili, meno dirompenti tuttavia significativi. Qual è il loro ruolo nella costruzione della trama e più in particolare della mentalità patriarcale che domina il villaggio di Ikati?
“Come nella realtà dei villaggi nigeriani, anche nel romanzo non sono solo gli uomini a determinare la persistenza di riti religiosi e pratiche di sfruttamento: tanto a Lagos quanto a Ikati sono anche le donne a maltrattare Aduni e a dimostrare connivenza con una situazione ancestrale di sottomissione. Tuttavia è proprio da Aduni – una ragazza – che parte prepotentemente il grido di rivolta. ‘So I roar’ – il titolo originario e il grido della protagonista – è quasi un suono onomatopeico che rende la forza e il dinamismo della rivolta come se non ci fosse – e non c’è – più tempo”.
Noi vediamo Aduni stesa a letto con la sua uniforme, felice e pettinata, pronta per il suo primo giorno di scuola, ignara che di lì a poco il suo passato l’avrebbe strappata a quella felicità. L’istruzione , voluta testardamente da Tia per Aduni, è la via dell’emancipazione?
“Certamente, un po’ alla volta le cose stanno cambiando e avendo accesso alla scuola, le donne potranno essere consapevoli di quello che stanno vivendo e di quello che invece succede al di fuori del proprio villaggio. In Nigeria esiste una profonda differenza tra le grandi città come Lagos dove sono vissuta io e i villaggi: nelle metropoli ci sono standard di vita più elevati e abitudini assimilabili a quelle europee con donne anche in posizioni lavorative importanti. Invece nelle parti rurali la povertà e la tradizione impongono ancora pratiche come matrimoni precoci o l’infibulazione. Tia vuole che Aduni vada a scuola e che diventi a sua volta maestra così da far conoscere al mondo e alle altre donne la realtà”.
Noi viviamo nel nostro Occidente una vita molto diversa, comoda ed agiata rispetto a quello che lei racconta nel suo libro e soprattutto le ragazze giovani vorrebbero fare qualcosa per le loro coetanee. Cosa potrebbero fare? E quello che facciamo può influire anche sulle dinamiche del potere in Nigeria?
“La consapevolezza è la parola chiave e i social sono importantissimi : basta un hashtag che dalla Nigeria rimbalza attraverso l’Europa a raggiungere Oprah Winfrey o Michelle Obama e diventa virale: a quel punto anche le organizzazioni terroristiche ne devono prendere atto : non si fermano, ma in qualche modo riflettono. Il secondo modo è sostenere dovunque l’educazione femminile. Io in prima persona collaboro Girls not brides ed altre organizzazioni che si dedicano alla prevenzione dei matrimoni precoci e al sostegno delle ragazze nella loro lotta per il diritto all’istruzione.
Direttamente, poi, ho collaborato con gruppi e scuole per incoraggiare alla lettura e al dialogo su questioni sociali rilevanti, focalizzandomi sul un lavoro di empowerment per le giovani ragazze, ma senza dimenticare il coinvolgimento dei ragazzi”.
La narrazione in prima persona di Aduni è costellata di metafore inerenti al suo mondo ed è reso attraverso l’uso del broken english, un inglese sgrammaticato a rendere più realistica la narrazione.
Le metafore che usa Aduni si riferiscono al suo mondo semplice perché ha 14 anni e in un certo senso “primitivo” almeno all’inizio della storia perché così è la sua vita, ma i suoi errori di grammatica e il suo lessico essenziale non vogliono significare che non sia intelligente : lo è ma non ha ancora maturato i mezzi espressivi per comunicarlo. Utilizzando un inglese non convenzionale e una sintassi semplice ho voluto dare autenticità alla narrazione, nel corso della storia sia Aduni che il suo modo di esprimersi evolvono.
Dopo “La ladra di parole” e “Un grido di luce” ci sarà un terzo romanzo con Aduni?
“Già dopo ‘La ladra di parole’ non avevo pensato a un futuro narrativo per Aduni e oggi sono allo stesso punto: per il momento il miei progetti sono dedicati a sostenere l’educazione delle donne, come strumento di lotta all’ignoranza e al sistema patriarcale”.
Alessandra Pavan