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Perché scrivere un libro, ovvero Aida, Fantozzi e le scodelle natufiane

Perché scrivere un libro? Giulio Ravizza in uscita con il suo libro "L'influenza del blu" ci guida attraverso la sua esperienza di scrittura

Non sono nato né cresciuto come uno scrittore. Ho frequentato il liceo scientifico e poi mi sono laureato in finanza. Lavoro da oltre dieci anni nel settore della pubblicità, che certamente è una forma di narrazione, ma molto diversa dalla letteratura. Un giorno però ho avuto un’idea per un romanzo: una di quelle talmente potenti da mollare tutto e scriverlo di getto. Essendo riuscito ad arrivare all’ambita meta della pubblicazione del mio L’influenza del blu, d’accordo con gli amici di Libreriamo racconterò quello che ho imparato con questa avventura, perché sia di beneficio a chi sogna di fare lo scrittore. 
Ci tengo a precisare due cose. La prima: farò vari accenni alla mia esperienza e a L’influenza del blu perché, essendo un outsider, le mie vicende personali sono l’unica fonte di coordinate di cui dispongo. La seconda: cercherò di dare ad ogni articolo un punto di vista netto e provocatorio, sia per far sì che il pensiero continui dopo la lettura degli articoli, sia perché possa essere concretamente utile a chi ha l’ambizione di vedere il proprio romanzo sullo scaffale di una libreria

Perché scrivere, ovvero Aida, Fantozzi e le scodelle natufiane

Facciamo un gioco. Se ti domandassi cosa associ all’Antico Egitto, cosa risponderesti? Su due piedi a me balza alla mente la Sfinge, il Dio Anubi che all’ingresso dell’oltretomba pesa ogni cuore su una bilancia, Cleopatra un po’ femme fatale alla Liz Taylor un po’ suicida romantica alla Callas, le mummie, le piramidi, il Faraone che fa una bellissima vita e gli schiavi che cuociono i mattoni sotto il solleone. Ammettiamolo: non ne sappiamo un granché di questi egizi, ma qualche minimo riferimento da studente dell’ultimo banco c’è. E se invece ti domandassi cosa associ alla cultura natufiana? Condividerai con me che degli amici natufiani non sappiamo assolutamente niente. Zero. Nisba. Vuoto assoluto, come in quelle interrogazioni a scuola in cui “Avevo capito che oggi spiegava”. Eppure abbiamo le tracce anche di questa cultura. Hai in mente quei polverosi corridoi di vasetti e ciotoline che in ogni museo fai di corsa per conservare un minimo di interesse per il resto dell’esposizione e per la vita stessa? Ecco: questo è il lascito di questi nostri agghiaccianti progenitori. Saresti in grado di descrivere la giornata tipo di un papà natufiano? Io non saprei da che parte partire. E la vita di un papà egizio? Apriti cielo: dall’Aida di Verdi ai kolossal in cui le mummie risorgono con un’incazzatura mostruosa, le storie su questo periodo sono numerosissime. 

Quando pensiamo all’Antico Egitto siamo colti da un fascino misterioso e nutriamo molto più interesse che per i poveri natufiani, che occupano uno spazio mentale attiguo a quello di quei lontani parenti di cui ci vergogniamo un po’. E sai perché? Perché la cultura natufiana è precedente all’invenzione della scrittura, e quindi non ha avuto modo di lasciarci delle tracce di senso. 

Ecco, dovendo rispondere alla domanda Perché scrivere?, io credo che innanzitutto la scrittura sia una traccia, un’impronta, un solco. Non una traccia qualsiasi però, bensì un segno che contenga un elemento di senso. 

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Qui il punto è molto semplice: gli interrogativi della nostra specie sono pressapoco i medesimi dai natufiani al governo Conte. Cosa accade dopo la morte? La mia vita ha un qualche significato? Ci sono dei valori in cui credere e ai quali dedicarsi? Esiste una verità universale? L’Universo è indifferente o porta con sé una sua logica? Non importa quanto moderne le nostre società siano: a queste domande noi non abbiamo mai saputo rispondere. Un bel problema in effetti, perché non ci stiamo domandando quale sarà il tormentone dell’estate 2020 ma se, perso un amico, un genitore o un cane un giorno li riabbracceremo. Non sono mica dettagli: a seconda che la risposta sia “sì” o “no” cambia tutto. Una caratteristica anche un po’ fantozziana della condizione umana, è che non ne sappiamo davvero niente. Io per esempio, sono capace ritoccare una mia fotografia con Photoshop togliendomi le rughe e aggiungendo più capelli, ma allo stesso tempo non so perché sono venuto al mondo. So quale sia il miglior sushi di Istanbul ma non so se l’Universo abbia una qualche forma di coscienza. E’ un po’ come saper cambiare l’olio al motore di una macchina senza però aver mai visto né una macchina né una strada né aver mai avuto bisogno di spostarsi da un punto A ad un punto B.

Abbiamo un disperato bisogno, come persone, di trovare un angolino di senso nelle nostre esistenze. Di intuire che oltre all’olio del motore si può anche suonare il clacson. Non saremo mai in grado di capire perché suonarlo o che relazione abbia con l’olio, ma almeno è qualcosa. Io non sono d’accordo con chi sostiene che la nostra risorsa più scarsa sia il tempo. A mio avviso la risorsa di cui abbiamo un bisogno più disperato è il senso: le relazioni di senso, i momenti di senso, i luoghi di senso, le azioni di senso. Puoi avere tutto il tempo che vuoi, ma senza un seme di una qualsiasi forma di senso, quel tempo ha il valore di un’infinita attesa nell’anticamera di un dentista (natufiano). 

Eccomi al punto. A mio avviso bisogna scrivere se si vuole fare due cose: lasciare una traccia e costruire un germoglio di senso. Dunque, se ti stai domandando se scrivere o no qualcosa, a mio avviso dovresti chiederti perché è importante lasciare una traccia ma specialmente come questa possa contribuire ad aggiungere un seme di senso nella vita di chi ti leggerà. Io ci ho provato con L’influenza del blu e anche se non sono sicuro di esserci riuscito, la mia decisione di scrivere è figlia di un’intuizione di senso. Se nella tua vita, in situazioni felici o tragiche, recenti o passate, vissute o immaginate tra l’ombra e l’anima hai avuto l’immensa fortuna di intravedere un pezzettino di senso, allora comincia: la tua specie ha un bisogno disperato di te.

Giulio Ravizza

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