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La tensione, ovvero la crudeltà di venire al mondo

Continua la nostra rubrica "Come diventare scrittore" curata da Giulio Ravizza. In questo episodio scopriamo come "viene al mondo" una storia da pubblicare

Nei due articoli precedenti ho parlato di come scrivere non significhi solo lasciare una traccia, ma lasciare una traccia che abbia in sé un germoglio di senso: merce rara e preziosa dal principio dei tempi fino ad oggi. Ebbene, una volta individuato quell’elemento che rende rilevante il tuo romanzo, questo va inserito in un racconto dal motore narrativo potente a sufficienza per tenere il lettore incollato dalla prima sino all’ultima. I prossimi articoli tratteranno di alcuni elementi utili a far sì che questo avvenga, ma c’è un fattore sotteso e forse non così evidente che a mio avviso è di gran lunga il più importante: io lo chiamo la tensione.

Con tensione mi riferisco ad una situazione in cui ci sono due forze che vanno in direzioni esattamente opposte ma che invece di essere in conflitto l’una con l’altra contribuiscono entrambe ad un’unica verità. Lo so, lo so, sembra una di quelle definizioni dell’odioso manuale di fisica che ti dovevi sciroppare al liceo, ma è come per la formula della forza di gravità: una volta capito che la mela cade dal ramo sul prato è già tutto più semplice. E allora facciamo cadere qualche mela.

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Noi tutti sentiamo allo stesso tempo un forte bisogno di appartenere ad un gruppo e di distinguerci da quel gruppo. Abbiamo bisogno di appartenere perché vogliamo sentirci accettati, amati, apprezzati: vogliamo sentirci parte della nostra famiglia, di un gruppo di amici, dei colleghi del lavoro, dei compagni di classe, di chi abita la nostra città-regione-nazione. Questo ovviamente ci porta ad uniformarci: se al nostro orizzonte sociale piacciono le persone spiritose io ce la metterò tutta per fare delle battute che fanno ridere (secondo il loro senso dell’umorismo).

Allo stesso tempo però, ciascuno di noi ha l’esigenza di essere centrato sul proprio sé più autentico, il che porta invece a distinguersi. Se a me fanno ridere solo le barzellette inglesi, non mi importa che agli altri non piacciano, io sono così e mi aspetto che mi si accetti per quello che sono.

Voilà due forze che fanno a pugni: vogliamo piacere (e quindi ci omologhiamo) ma allo stesso tempo vogliamo dare ascolto a noi stessi (e quindi ci distinguiamo). Pur essendo questi due istinti assolutamente contrapposti e polarizzanti, fanno parte di una stessa verità, quella delle nostre relazioni sociali. 

Una tensione semplice ma dalla potenza spaventosa. Nella Traviata di Verdi (faccio un esempio operistico perché relativamente più pop rispetto al romanzo di Dumas figlio) il nobile Alfredo prova un amore puro e gentile per la cortigiana Violetta, che ricambia con altrettanto candore. Eppure la società del tempo non lo accetta e la sorella di Alfredo si vede rifiutata dal suo promesso sposo perché il fratello ha per amante una prostituta.

Voilà una storia meravigliosa che poggia su questa tensione: Alfredo deve seguire il sentimento che fa fiorire in lui l’amore o deve piuttosto accettare le norme che definiscono il suo orizzonte sociale (la Parigi aristocratica e bigotta di metà Ottocento)? E Antigone, dovrebbe dare sepoltura al fratello Polinice come in cuor suo vorrebbe per non lasciarlo in pasto a uccelli e cani, o dovrebbe rispettare la volontà della sua comunità e del Re di Tebe che fa valere le regole della città che le ha dato i Natali?

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Va bene, va bene, sono esempi forse un po’ pedanti e astratti. Voilà una tensione più tangibile. Prendi ad esempio il sentimento di un padre nei confronti di un figlio che viene maltrattato a scuola da un compagno di classe. Da una parte quel padre avrà un istinto di protezione verso suo figlio, ma allo stesso tempo sentirà il bisogno di temprarlo, di prepararlo per l’età adulta, di fare in modo che quando lui non ci sarà a proteggerlo quel bimbo si saprà difendere da solo.

Ecco quindi che, nell’animo di quel padre, sopravvivono due forze opposte: proteggere il proprio figlio e spronarlo, dirgli “ci pensa il tuo papà” e “devi cavartela da solo”, lanciargli un salvagente e lasciarlo nuotare in mare aperto. Eppure entrambe queste forze contribuiscono ad una verità: quella di essere padre. 

Nel romanzo che ho scritto ad un certo punto mi serviva una tensione narrativa forte per catturare l’attenzione intorno al tema, centrale per l’intreccio narrativo, di quanto malvagità e crudeltà siano necessarie alle esistenze di ciascuno di noi. Desideriamo essere persone buone e compassionevoli, ma l’esistenza ci impone un’indifferente cattiveria: due forze opposte che contribuiscono alla verità della scelte delle nostre vite. Voilà, come ultimo esempio, un estratto tratto da L’influenza del blu

Quanta crudeltà deve avere un neonato per venire al mondo, meditò. Il primo gesto di ogni creatura umana consiste nello squarciare le membra della sua genitrice. La vita di ciascuno di noi comincia con un atto di sangue: feriamo l’innocente che ci ha portati in grembo, rigettando con ingratitudine l’utero amorevole che ci ha accolti fino a quell’istante. Eppure se un bambino non lacerasse le carni della propria madre non potrebbe nascere. La vita origina da un atto di malvagia violenza verso chi ci ama, concluse Don Marcello in balia dei brividi arrecati dal suo malanno.

Concludo dicendo che le tensioni che scegli per il tuo romanzo saranno tanto più efficaci quanto saranno o esistenziali oppure attuali. Quelle esistenziali sono così primordiali che riguardano tutti noi, dalla notte dei tempi sino all’ultimo giorno della nostra specie. I tre esempi che ho fatto sopra hanno un sapore piuttosto esistenziale. 
Quelle attuali sono portate dai tempi che corrono: ieri non c’erano, oggi ci sono e domani chissà. Uno spunto per una tensione contemporanea mi è giunto poco tempo fa, quando un amico mi ha detto quanto percepiscono i fattorini che in sella alle loro biciclette fanno consegne a domicilio.

Una parte di me si è detta “un lavoro modesto è preferibile a nessun lavoro”. Poi subito è subentrata un’altra parte (sempre di me, eh) che ha obiettato “davvero lo voglio un mondo in cui un ragazzo rischia la pelle sfrecciando sotto la pioggia e il gelo per meno di otto euro l’ora, e tutto per portare a me un costosissimo sushi?”. Due pensieri entrambi legittimi ma in perfetta contrapposizione e che contribuiscono a formare la verità del lavoratore precario dei nostri tempi.

Non farti ingannare: anche se si parla di lavoro, non si tratta della stessa tensione che ha dato vita al verismo italiano di fine ottocento, né a capolavori come Tempi Moderni di Chaplin. Questo è materiale nuovo e attuale. Ci starebbe quasi un romanzo, non credi?

Giulio Ravizza

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