C’è stato un tempo in cui indignarsi era un atto raro, profondo, quasi sacro. Oggi, invece, basta una notifica, un titolo letto di fretta o un reel fuori contesto per accendere fiaccole digitali e lanciare anatemi nei commenti. E la Maturità 2025, con sorprendente lucidità, ha messo il dito nella piaga: “L’indignazione è il motore del mondo social. Ma serve a qualcosa?”
La domanda al centro di una delle due tracce d’attualità della seconda prova, tratta da un articolo di Anna Meldolesi e Chiara Lalli pubblicato sul settimanale Sette del Corriere della Sera, è una di quelle che ci obbliga a guardarci allo specchio. Non tanto per rispondere, quanto per domandarci che tipo di partecipazione sociale stiamo davvero costruendo.
L’indignazione non basta: perché la rabbia da tastiera non cambierà il mondo
Il mondo ha bisogno di rabbia, certo. Ma di quella buona. Di quella che si sporca le mani, che si informa, che non ha paura di mettersi in gioco davvero. Il mondo ha bisogno di giovani che, come diceva Borsellino, siano “la nostra speranza”, e non solo dei commentatori a tempo pieno.
Quindi sì, condividi pure quel post. Ma poi chiama il tuo rappresentante, partecipa a un incontro, leggi un libro, scrivi un articolo, fai qualcosa. Perché indignarsi va bene. Ma è solo l’inizio della rivoluzione.
L’indignazione oggi ha un’estetica precisa: scritte in maiuscolo, emoji arrabbiate, storie con filtri cupi e hashtag lanciati con furia. È un atto collettivo, spesso sincero, che prende fuoco in un secondo e si spegne con altrettanta rapidità. Ma quanto ci rimane davvero addosso?
Ci indigniamo per la politica, per le guerre, per la cronaca nera, per lo youtuber che ha detto una cosa discutibile nel 2018. L’indignazione è diventata la nostra sigaretta mentale: una boccata di sfogo per sentirci partecipi, giusti, presenti. Ma serve?
Uno dei temi centrali del testo della Meldolesi e Lalli è la natura effimera di questa forma di protesta. L’indignazione digitalizzata ha la durata di una story: 24 ore (nei casi migliori). Poi si passa ad altro. Nuovo post, nuova polemica. E il rischio è alto: si scambia l’espressione del disagio per azione, la visibilità per cambiamento, il rumore per efficacia.
Certo, indignarsi è legittimo. Ma indignarsi e basta non produce nulla. È come gridare al fuoco e non prendere in mano l’estintore. Peggio: può diventare una forma di autoassoluzione. Condivido un post indignato, faccio la mia parte, mi sento meglio. Ma poi? Quanti di noi sono davvero andati oltre il pollice verso?
Attenzione, però: non buttiamo il bambino con l’acqua social. Ci sono momenti in cui l’indignazione collettiva ha fatto la differenza. Pensiamo a #MeToo, a Black Lives Matter, a Fridays For Future: movimenti nati anche grazie alla viralità dell’indignazione, che hanno saputo trasformare la rabbia in organizzazione, la protesta in proposta.
Ma la differenza sta lì: nella trasformazione. L’indignazione non era il punto d’arrivo, ma il punto di partenza. Le persone sono scese in piazza, hanno firmato petizioni, fondato collettivi, scritto libri, fatto leggi. Il like è diventato azione. La fiaccola digitale ha acceso una mobilitazione reale.
L’indignazione costante, se non ben gestita, rischia però di diventare moralismo automatico. Quello che ti fa “cancellare” una persona per una frase, senza contestualizzare. Quello che ti trasforma in giudice e giuria con lo scroll del pollice. Il risultato? Una cultura in cui nessuno può sbagliare, ma tutti possono punire.
E in questo meccanismo il pensiero critico viene sacrificato sull’altare del consenso rapido. Si finisce per difendere cause senza conoscerle, schierarsi senza capire, postare senza leggere. Un attivismo che si basa sull’apparenza, e che spesso non regge alla complessità del mondo reale.
Ma allora, cosa possiamo fare?
La risposta alla domanda delle autrici non è un no, né un sì. È un “dipende da noi”. L’indignazione, come l’informazione, è uno strumento. Sta a noi decidere se usarlo per illuminare o per bruciare. Se trasformarlo in una scintilla o lasciarlo evaporare in un’esclamazione.
E allora ecco qualche idea concreta per rendere l’indignazione utile, anche fuori dalle stories: Leggere prima di condividere (sì, anche gli articoli lunghi). Contestualizzare un fatto prima di giudicarlo, partecipare a una realtà locale: associazione, scuola, circolo, volontariato.Usare i social come ponte, non come recinto. Scegliere con cura le battaglie, e non solo quelle di tendenza.
L’epoca dell’indignazione istantanea ha reso il dubbio un lusso. Chi si ferma a pensare rischia di sembrare tiepido. Eppure, è proprio la riflessione a rendere etico il nostro essere cittadini. Non c’è cambiamento senza pensiero, non c’è impegno senza responsabilità.
La scuola, e la Maturità, ce lo ricordano. Il fatto che una traccia così sia stata proposta a diciottenni in un momento cruciale della loro vita è un segnale forte. Non basta indignarsi, bisogna comprendere. E poi, decidere come agire.