Esiste una differenza fra una parte e un personaggio. Se ti dicessi “C’era una volta un Re e poi c’era una Principessa” sto già prefigurando due parti. Il Re è presumibilmente un cinquantenne grassottello, bonaccione ma indifferente ai bisogni del suo popolo, iperprotettivo verso la sua unica figlia. La Principessa non avrà altro destino che cadere nelle mani di un antagonista, disperarsi ed essere salvata da un eroe del quale si innamorerà. Vale lo stesso principio per il guardiano, lo scemo del villaggio, il cieco, il genio mediorientale e via discorrendo. Se il mondo delle fiabe non ti appartiene, pensa all’idraulico di YouPorn: può andare a finire solo in un modo, il lavandino non sarà riparato con particolare perizia.
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Le parti sono comode anche nei romanzi: basta usarle per tutto ciò che è di fondo o di contorno. Già perché non vale la pena caratterizzare tutte le persone che compaiono in scena: sarebbe come se in un film tutte le comparse si dovessero presentare con i loro drammi e le loro storie.
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I personaggi invece si possono definire tali, se hanno un elemento di complessità e di profondità narrativa. Spesso, all’alzarsi del sipario, sono introdotti con una caratteristica fisica che li rende unici.
“Quest’uomo, meglio conosciuto sotto il nome di Tigre della Malesia, che da dieci anni
insanguinava le coste del mar malese, poteva avere trentadue o trentaquattro anni. Era alto di statura, ben fatto, con muscoli forti come se fili d’acciaio vi fossero stati intrecciati, dai lineamenti energici, l’anima inaccessibile a ogni paura, agile come una scimmia, feroce come la tigre delle jungla malesi, generoso e coraggioso come il leone dei deserti africani. Aveva una faccia leggermente abbronzata e di una bellezza incomparabile, resa truce da una barba nera, con una fronte ampia, incorniciata da fuligginosi e ricciuti capelli che gli cavedano con pittoresco disordine sulle robuste spalle.”
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Più ricercata, a mio avviso, è una presentazione basata invece su tratti caratteriali. Avendo fatto bullismo sul povero Alessandro Manzoni nell’articolo che trattava della stesura di un incipit, sono felice di rendergli un po’ di giustizia con una caratterizzazione che a mio avviso è perfetta.
“Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’esser in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi assai di buon grado ubbidito ai parenti che lo vollero prete. […] Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui…”
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Ecco infine un esempio intermedio, dove la caratterizzazione fisica e quella caratteriale si fondono.
“Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un
ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riuscire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.”
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Aggiungo una provocazione. Il ruolo di parti e personaggi è un punto fermo della letteratura, da Ettore e Achille ai due amanti delle cinquanta sfumature di grigio. Io sono molto affascinato dall’idea di scardinare questi elementi così dogmatici, specialmente perché il lettore si aspetta una “liturgia del personaggio” proprio come l’ho descritta nei punti precedenti. Ogni aspettativa tradita, è l’occasione di inventare un nuovo modo di fare letteratura. Quanto sarebbe originale un romanzo in cui non si dà nome ad alcun personaggio? In cui non si dice se sia maschio o femmina, italiano o francese, vecchio o giovane? In cui non si cerchi di stabilire alcun legame empatico fra il lettore e i personaggi? Nel teatro qualche esempio c’è: penso a Pirandello o a Beckett, ma gli esempi di meta-personaggi romanzeschi a mio avviso sono pochi.
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Nel mio piccolissimo, ne L’influenza del blu, mi è piaciuta l’idea di disorientare il lettore facendo comportare tutti in modo identico: omologati nei gesti, nelle intenzioni, nelle idee e nelle azioni. Perfettamente sostituibili l’uno con l’altro, se non per i loro nomi. Mi sono divertito a creare una parte (nuova però, come il primo idraulico di internet) per poi costringere tutti quanti lì dentro. Con l’inganno che, di nascosto dal lettore, una di quelle parti nell’ultima riga dell’ultima pagina, si rivela personaggio fatto e finito. Ai lettori spetterà l’ardua sentenza di questo esperimento.
Giulio Ravizza
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