«Non c’è più budget», recita la nota della Rai. Così si chiude, almeno per ora, una delle serie più apprezzate della TV pubblica italiana, Rocco Schiavone, tratta dai romanzi di Antonio Manzini e interpretata da Marco Giallini. Ma dietro il comunicato asciutto si agita qualcosa di più profondo: un sentore di censura, di controllo ideologico, di volontà politica.
Il caso è esploso sui social dopo che l’ex parlamentare Elio Vito ha collegato la sospensione della serie alle precedenti critiche pubbliche di Maurizio Gasparri. «Un caso? Non credo», scrive, denunciando una gestione faziosa della Rai e una destra che impedisce persino alla Commissione di vigilanza di riunirsi.
Un’accusa grave che riapre il dibattito sul pluralismo dell’informazione e della cultura in un servizio pubblico che dovrebbe garantire autonomia, qualità e varietà.
Curiosità sui libri e sulla serie
Chi è Antonio Manzini? Nato a Roma nel 1964, Antonio Manzini è scrittore, attore, sceneggiatore e regista.
Ha esordito come attore teatrale, studiando con Andrea Camilleri, e ha lavorato con registi come Marco Bellocchio.
Il personaggio di Rocco Schiavone nasce nel 2013 con Pista nera (Sellerio) e diventa subito un caso editoriale.
I romanzi della serie sono tradotti in oltre 10 lingue e hanno venduto più di 2 milioni di copie.
Manzini ha scritto lui stesso le sceneggiature della serie TV, mantenendo un forte controllo autoriale.
Cosa resta del noir italiano? Con la sospensione di Rocco Schiavone, si chiude simbolicamente una stagione del noir italiano che aveva trovato nuova linfa nelle serie TV. Dopo il boom di Montalbano, la Rai aveva investito su personaggi più ambigui, meno idealizzati: pensiamo a Nero a metà, Il commissario Ricciardi, I bastardi di Pizzofalcone. Tutti prodotti che hanno cercato, con alterna fortuna, di sporcare la narrazione, renderla più umana, più imperfetta. La sospensione di Schiavone sembra invece indicare un ritorno al controllo, al consolidato. Alla paura del dissenso.
Chi è Rocco Schiavone? Perché piace tanto al pubblico e allo stesso tempo è ritenuto scomodo?
La cultura, in TV, non si fa solo con documentari e programmi divulgativi. Si fa anche, e forse soprattutto, con la narrazione, con la fiction, con le storie. Rocco Schiavone era una di queste storie. E perderla, per ragioni che appaiono più politiche che economiche, è una sconfitta. Per il servizio pubblico, ma anche per tutti noi che chiediamo una televisione capace di farci riflettere, discutere, dubitare. E non solo di farci addormentare tranquilli.
Un vicequestore scomodo Ma perché Rocco Schiavone dà tanto fastidio?
Il personaggio nato dalla penna di Manzini è tutto fuorché rassicurante: un poliziotto ruvido, cinico, abruzzese trapiantato ad Aosta per punizione, con un passato opaco, metodi spicci e una filosofia morale più che discutibile.
Fuma spinelli, bestemmia, prende scorciatoie. Ma è anche un uomo di dolore, segnato dal lutto della moglie, capace di umanità, profondamente realista.
Non è l’eroe ideale della narrativa edificante. È il contrario: un protagonista ambiguo, che vive e agisce in quella zona grigia della legge e dell’etica che la fiction italiana tende spesso a evitare. Eppure è proprio questa ambiguità che ha reso la serie un cult, seguita e amata da un pubblico vasto e trasversale.
Il successo non è solo dovuto all’interpretazione intensa di Giallini, ma alla qualità della scrittura, alla fotografia noir, al ritmo serrato e, soprattutto, all’idea di un’Italia non perfetta ma vera.
Un’Italia di provincia, di neve e silenzi, di crimini che non si risolvono con la morale, ma con l’esperienza.
Quando il budget diventa una scelta politica
La Rai ha motivato lo stop parlando di mancanza di fondi. Eppure, come ha fatto notare lo stesso Manzini, Rocco Schiavone è una delle serie che più ha funzionato in termini di pubblico e vendite estere. In un contesto in cui la TV pubblica fatica spesso a esportare i propri prodotti, il giallo di Schiavone era una rarità: un format solido, riconoscibile, internazionale.
Sospenderlo non è solo un errore editoriale: è una presa di posizione. Perché se si taglia ciò che funziona e che ha una propria voce autonoma, allora si dà un segnale: non vogliamo contenuti problematici, non vogliamo figure non allineate, non vogliamo contraddizioni. In altre parole, si preferisce la narrazione uniforme, l’intrattenimento che non disturba.
La fiction italiana rischia così di tornare a essere una vetrina di modelli rassicuranti, fatta di famiglie perfette, commissari paterni, preti detective e amori in controluce.
Una televisione che consola, non che interroga. Il peso del controllo culturale
Questa scelta non arriva nel vuoto. Da mesi si discute della trasformazione della Rai sotto il nuovo assetto politico, con accuse di epurazioni, nomine pilotate e orientamento ideologico dei contenuti.
La chiusura di trasmissioni come CheSarà di Serena Bortone, l’addio di Fabio Fazio, le tensioni intorno al Festival di Sanremo: tutti segnali di una tensione crescente.
Il servizio pubblico, per definizione, non dovrebbe essere né neutrale né partitico, ma pluralista. Dovrebbe cioè rappresentare, nel suo palinsesto, la complessità del Paese, dando spazio anche alle voci scomode, ai racconti non convenzionali, ai personaggi che non piacciono a tutti. In questo senso, Rocco Schiavone era una boccata d’aria. Non parlava di politica, ma raccontava un’Italia vera, a volte sporca, a volte ingiusta. Era, paradossalmente, una delle narrazioni più oneste dell’ultimo decennio.