“Il commissario Ricciardi” è una delle fiction Rai che più hanno lasciato il segno negli ultimi anni: tre stagioni, dieci episodi in tutto, tratte dai romanzi di Maurizio de Giovanni e ambientate in una città sospesa tra la bellezza e la violenza del regime fascista. È difficile pensare oggi al giallo italiano senza passare per Napoli, gli anni Trenta e un commissario dal ciuffo ribelle che parla poco e sente troppo.
Luigi Alfredo Ricciardi è un barone del Cilento trapiantato alla Regia Questura di Napoli. È un investigatore lucidissimo, metodico, ma il suo vero “strumento di lavoro” è una maledizione ereditata dalla madre: il Fatto, la capacità di vedere i fantasmi delle vittime di morte violenta e di ascoltarne l’ultimo pensiero. Una soglia continua tra vivi e morti che lo consuma, lo isola, lo rende incapace di una vera vita affettiva, ma che alimenta una forma radicale di empatia: Ricciardi non indaga sui casi, convive con le loro ombre.
Attorno a lui, una Napoli di vicoli, teatri, caffè storici, case borghesi e bassi popolari, ricostruita tra Taranto, Napoli e altre location del Sud con una cura visiva che è diventata uno dei marchi di fabbrica della serie.
Dal caffè Gambrinus alla prima serata Rai
Prima di diventare fiction, Ricciardi è stato un esperimento letterario. Tutto comincia quando Maurizio de Giovanni partecipa a un concorso per giallisti emergenti al “Gran Caffè Gambrinus di Napoli”: il racconto “I vivi e i morti dà origine al romanzo “Le lacrime del pagliaccio”, poi riedito come “Il senso del dolore. L’inverno del commissario Ricciardi”, nel 2007. È il primo tassello di una serie che, libro dopo libro, costruirà una delle saghe noir più amate in Italia.
Da lì in avanti, de Giovanni lega Ricciardi alle stagioni dell’anno e alle feste:
- “La condanna del sangue (primavera)”,
- “Il posto di ognuno (estate)”,
- “Il giorno dei morti (autunno)”,
- “Per mano mia (Natale)”, fino a titoli come “Vipera”, “In fondo al tuo cuore”, “Anime di vetro”, “Serenata senza nome”, “Rondini d’inverno”, “Il purgatorio dell’angelo”, “Il pianto dell’alba”, e poi le più recenti “Caminito”, “Soledad” e “Volver – Ritorno per il commissario Ricciardi”.
Quando nel 2021 Rai 1 porta in prima serata “Il commissario Ricciardi”, il salto dalla pagina allo schermo è già atteso da anni: l’universo è pronto, i lettori sono affezionati, il personaggio ha una struttura emotiva solida. La fiction, prodotta da Rai Fiction e Clemente Mimun (Cattleya nelle prime fasi), affida la regia a Alessandro D’Alatri (poi a Gianpaolo Tescari) e il ruolo principale a Lino Guanciale. Il resto è una lenta costruzione di culto.
Il “Fatto”: un dono-maledizione che cambia il giallo italiano
Il cuore della serie, al di là dei singoli casi, è questa idea quasi “gotica” nel pieno del fascismo: un commissario che, invece di affidarsi solo a prove e interrogatori, sente sulla pelle l’ultimo pensiero dei morti. Nei romanzi come nella fiction, questo non è mai un espediente comodo: non indica il colpevole, non risolve l’indagine, semmai la complica.
Ricciardi è costretto a condividere l’agonia delle vittime, a non potersi voltare dall’altra parte. È un potere che non si può spegnere, che lo condanna all’insonnia, alla solitudine, a una sorta di lutto permanente. In televisione, questa maledizione diventa immagine: apparizioni brevi, sfuocate, mai davvero consolatorie. È uno dei motivi per cui la serie è stata percepita non solo come un giallo, ma come un racconto sulla responsabilità dello sguardo, su cosa significa “vedere” quando il mondo preferisce non farlo.
Dai libri alla serie: tre stagioni tra fedeltà e scarti
La prima stagione, nel 2021, adatta i primi romanzi “stagionali” e ci introduce al triangolo affettivo che regge una parte importante della storia: Enrica Colombo, maestra timida e riservata; Livia Lucani, diva dell’opera, vedova del tenore Vezzi; e il commissario, che si muove goffamente tra desiderio e paura, tra la possibilità di una felicità “normale” e il timore che il Fatto distrugga tutto ciò che tocca.
La seconda stagione (2023) spinge di più sul contesto fascista: l’OVRA, le pressioni del regime, la tensione tra la lealtà alla legge e la fedeltà alla coscienza. Maione e Modo – il brigadiere e il medico legale antifascista – diventano sempre più colonne morali, mentre la vita privata di Ricciardi resta sospesa.
La terza stagione, andata in onda fra il 10 e il 24 novembre 2025, ha spiazzato molti spettatori per la sua scelta di portare in tv uno dei passaggi più dolorosi dei libri: la morte di Enrica, dopo che lei e Ricciardi erano finalmente riusciti a sposarsi e a immaginare un futuro insieme. Il commissario si ritrova padre della piccola Marta, solo con il suo lutto e con un nuovo caso che lo costringe a guardare in faccia la possibilità di perdere ancora.
È un finale di stagione che ha diviso il pubblico – social pieni di lacrime, ma anche di rabbia per un amore spezzato – e che proprio per questo merita di essere letto dentro la logica di de Giovanni: la saga di Ricciardi non è mai stata consolatoria. È sempre stata una riflessione su come si convive con la perdita.
Un cast corale per un eroe solitario
Se Ricciardi è il centro emotivo, la serie vive però di un ensemble molto forte, che ricrea la coralità dei romanzi.
C’è il brigadiere Raffaele Maione (Antonio Milo), poliziotto enorme e dolcissimo, legato a Ricciardi da una tragedia familiare e da una fiducia incrollabile. C’è Bruno Modo (Enrico Ianniello), medico legale e antifascista dichiarato, che porta in scena una Napoli politicamente più consapevole, in contrasto con la prudenza del commissario. Ci sono le donne: Enrica (Maria Vera Ratti), con il suo modo di amare fatto di gesti minimi e coraggio silenzioso; Livia (Serena Iansiti), diva moderna, complessa, mai riducibile a “femme fatale”, e Rosa (Nunzia Schiano), la governante che per Ricciardi è madre, memoria, radice.
Accanto a loro, i volti delle seconde linee: il vicequestore Garzo (Mario Pirrello), l’ambiguo agente dell’OVRA Falco (Marco Palvetti), e un fitto universo di cameriere, nobili decaduti, artisti, povera gente che attraversa gli episodi e costruisce un quadro sociale che va oltre il puro caso di puntata.
Questa coralità è uno dei motivi per cui “Il commissario Ricciardi” è riuscito a funzionare anche all’estero, distribuito in vari paesi europei e in America su canali e piattaforme dedicate alla fiction europea, da Walter Presents a MHz Choice.
Lino Guanciale: un uomo solo in mezzo ai fantasmi
Il volto (e la voce) di Ricciardi
Il successo della serie passa inevitabilmente da Lino Guanciale, che con Ricciardi ha trovato uno dei ruoli più complessi della sua carriera. Nelle interviste, l’attore ha insistito spesso su un punto: Ricciardi non è solo un investigatore tormentato, è anche un personaggio “contro”. Contro il fascismo, certo – per il suo modo di restare fedele ai morti più che al potere –, ma anche contro il rumore dell’epoca contemporanea, fatta di parole urlate e di giudizi rapidi.
Guanciale lavora molto sui silenzi, sugli sguardi storti, sulla postura rigida, quasi sempre un passo indietro rispetto alle scene. Il ciuffo, diventato iconico, è un vezzo visivo ma anche un modo per rendere fisica la dissonanza del personaggio: un uomo che appartiene alla nobiltà, ma vive come un eremita di città; un funzionario del regime che resta estraneo al suo entusiasmo.
In un’intervista recente, l’attore ha raccontato di essere perfettamente consapevole del paradosso: “Tutti leggono i libri dando a Ricciardi il mio volto. Tutti tranne me”, ha detto, spiegando di preferire che il personaggio resti qualcosa di autonomo, non ingabbiato nella sua interpretazione.
Una serie “contro il fascismo” e contro l’indifferenza
Parlando della terza stagione, Guanciale ha definito “Il commissario Ricciardi” una serie “contro il fascismo”, nel senso più ampio del termine: non solo contro un regime storico, ma contro ogni forma di sopraffazione, di cancellazione della vulnerabilità, di rimozione del dolore altrui. Il potere di vedere i morti, in questo senso, diventa il simbolo di una radicale indisponibilità a dimenticare.
Il pubblico, stagione dopo stagione, ha finito per identificare il personaggio con il suo interprete. Eppure Guanciale non smette di ricordare che Ricciardi è nato sulla pagina: la sfida, per lui, è restare fedele allo spirito dei libri senza trasformare la fiction in una “illustrazione” pedissequa.
Libri e serie: cosa è stato adattato e cosa può ancora arrivare
La Rai ha finora adattato una parte del corpus narrativo dedicato al commissario: i primi romanzi stagionali e alcuni tra i titoli centrali, riprendendo anche trame da racconti e novelle. Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia e Vipera sono il cuore della materia raccontata, intrecciata con linee che guardano a libri successivi come In fondo al tuo cuore o Anime di vetro.
Nel frattempo, però, la saga letteraria è andata avanti: de Giovanni ha portato Ricciardi fino a Il pianto dell’alba – un titolo che, non a caso, è stato utilizzato per l’ultima puntata della terza stagione – e poi a una sorta di “nuova trilogia” con Caminito, Soledad e Volver, che esplorano un commissario più maturo, in anni diversi, alle prese con un mondo che cambia.
Per chi guarda la serie, questo significa una cosa semplice: materiale narrativo ce n’è ancora moltissimo. E la terza stagione lo suggerisce apertamente, inserendo anche una novella inedita mai apparsa finora nei romanzi, come a dire che l’universo di Ricciardi può ormai camminare sia accanto ai libri che in territori autonomi.
Verso una quarta stagione? Una porta socchiusa
Alla fine della terza stagione, la domanda è inevitabile: Il commissario Ricciardi 4 si farà?
Al momento non c’è ancora una conferma ufficiale della Rai, ma gli indizi sono forti. La produzione, durante l’Italian Global Series Festival, ha fatto capire che il finale è stato costruito per lasciare aperta la strada a un seguito, e che la novella inedita utilizzata quest’anno potrebbe diventare il punto di partenza per una nuova stagione.
Anche Lino Guanciale, pur usando toni prudenti, ha ammesso che “potrebbe essere l’ultima, ma mai dire mai”, lasciando ai fan quella zona grigia dove la nostalgia convive con la speranza. Maria Vera Ratti, che presta il volto a Enrica, ha ricordato in più occasioni che il destino televisivo del personaggio è in parte legato ai libri, ma che sul futuro “non si sa ancora nulla”.
In altre parole: niente è deciso, ma nessuna porta è stata chiusa. E la forza degli ascolti – con la terza stagione stabile intorno al 20% di share – rende difficile immaginare che la Rai voglia abbandonare così in fretta un personaggio entrato così profondamente nell’immaginario del pubblico.
Un addio (provvisorio?) pieno di domande
Il finale della terza stagione lascia Ricciardi in una condizione quasi paradossale: più solo che mai, e allo stesso tempo più legato alla vita. Ha perso Enrica, ma ha una figlia. Ha visto ancora una volta quanto può essere crudele il mondo, ma continua a indagare, a dare voce ai morti, a rifiutare l’indifferenza.
Come lettori e spettatori, restiamo con molte domande aperte:
- che ne sarà del suo rapporto con Livia, tornata al centro dell’ultima indagine?
- fino a che punto l’OVRA condizionerà ancora le sue scelte?
- che tipo di padre potrà essere un uomo che convive ogni giorno con il dolore degli altri?
- e, soprattutto, fino a dove sarà disposto a spingersi per proteggere Marta senza tradire se stesso?
Sono domande che non riguardano solo la trama, ma il cuore del personaggio. Ed è forse questo il motivo per cui Il commissario Ricciardi continua a parlare a tanti: al di là dei casi, dei colpevoli e delle epoche, racconta un uomo che rifiuta di smettere di sentire, anche quando sentire fa male.
Se ci sarà una quarta stagione, ripartirà da qui: da un commissario più ferito ma anche più umano, da una Napoli ancora piena di ombre, da un pubblico che ha accettato l’idea che una serie in costume, il lunedì sera, possa essere insieme un giallo e una meditazione sulla responsabilità.
Se invece questa fosse davvero la fine, resterebbe comunque la sensazione di aver assistito a qualcosa di raro: una fiction popolare che non ha paura di farsi domande difficili, e un personaggio che, chiudendo un’indagine dopo l’altra, ci ricorda che la giustizia non è mai solo una questione di legge, ma di sguardo, di memoria e di coraggio.
