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Indiana Jones e l’omaggio di Spielberg al mestiere dell’archeologo

Quarant'anni fa iniziarono le riprese di Indiana Jones, che rese popolari e amate due figure fino ad allora in ombra: l'archeologo e il topo di biblioteca. Ce lo racconta il noto critico d'arte Luca Nannipieri

Quarant’anni fa iniziarono le riprese di Indiana Jones, che rese popolari e amate due figure che altrimenti non sarebbero state note al grande pubblico: l’archeologo e il topo di biblioteca. “Ci voleva il genio di Spielberg per far amare da milioni di cittadini un mestiere  un po’ sonnacchioso come quello dell’archeologo”. A raccontarcelo è Luca Nannipieri, fra i maggiori critici d’arte contemporanei, autore dei libri “Raffaello” e “Capolavori rubati”, pubblicati da Skira.

Perché Indiana Jones è entrata nella storia del cinema

Serviva un genio, e lui, Steven Spielberg, lo è. E serviva un continente nuovo, libero dalle incrostazioni, dalle anchilosi, dalle accademie. E l’America, lo è. Indiana Jones non sarebbe potuto nascere in un continente vecchio come l’Europa. Qui da noi un film sull’archeologia si sarebbe impantanato tra commissioni ministeriali, protocolli d’intesa con le università, interviste o pastorali con questo o quell’accademico impegnato in campagne di scavo, sopralluoghi sul set da parte degli eruditi per esser certi che il mestiere dell’archeologo non venisse svilito. Insomma, da noi, sarebbe venuto fuori un documentario per la notte di Rai3. Invece, di là dall’Oceano, hanno buttato via, con disinvolta e brutale sfacciataggine, tutta la nostra appesantita prosopopea. Cosa ha fatto quel genio di Spielberg nei tre film della saga, il cui primo sta per compiere 40 anni? Ha separato tre termini che in Europa stanno sempre maledettamente assieme: conoscenza, erudizione e pesantezza. Lui ha preso l’archeologo e invece di avvolgerlo di erudizione e pesantezza, come si sarebbe fatto in Europa, dimostrando libertà, vivacità e spassoso divertimento che forse soltanto il cinema si può permettere, lo ha circondato di avventure, fughe, inseguimenti, passioni amorose, tesori nascosti, enigmatiche astrusità del passato. Indiana Jones è diventato un mito perché ha separato conoscenza da erudizione e pesantezza. E questo non poteva capitare da noi, il continente dove la stretta erudizione, nelle discipline storiche, ha sterilizzato la libera conoscenza.

Che cosa ci insegna Indiana Jones

Lasciando perdere il quarto episodio della serie, uscito di recente, che considero un vizietto senile, Spielberg ha reso popolari e affascinanti due figure che altrimenti non sarebbero neppure conosciute dal grande pubblico: l’archeologo e il topo di biblioteca. Ci voleva tutta la spregiudicata e vanitosa libertà di un hollywoodiano per rendere simpatico da milioni di cittadini un mestiere che il nostro vecchio continente, negli ultimi decenni, ha appesantito relegandolo alla figura dell’accademico, dell’istruito, del convegnista, del tecnico puro. Mentre Hollywood ha ancora nelle vene quell’adolescenziale vitalità degli archeologi pionieri alla Howard Carter che salirono su una nave a fine Ottocento, raggiunsero l’Egitto e, pur sbarcando il lunario facendo i commercianti o i pittori, spesero tanti eccitanti anni della loro vita alla ricerca di una tomba faraonica intatta nella sacra Valle dei Re. E di questa adolescenziale vitalità alla Indiana Jones, noi saremo sempre grati.

Di Luca Nannipieri

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