Quando un titolo come “L’Accabadora” riaffiora nel catalogo di Amazon Prime Video, il pensiero si sposta d’impulso sull’opera omonima di Michela Murgia; tuttavia, conviene chiarirlo subito: il film di Enrico Pau e il romanzo condividono soltanto il titolo e un nucleo d’immaginario, poi prendono strade diverse. Cambiano i personaggi, cambia l’impianto, cambia l’ordine emotivo delle scene. Metterli vicini serve a una cosa sola, a guardare come cambia il senso quando cambia la forma del racconto.
Il film di Enrico Pau
Una figura, un rito, una città ferita
Nel film, Annetta entra in scena come una presenza scura e solitaria, quasi trattenuta dalla propria ombra. La storia insiste su un dettaglio materiale, sgradevolmente concreto: una sacca con oggetti destinati a un compito che, nella comunità, vive a mezza voce.
Quando arriva la chiamata, quegli oggetti diventano rito; e il rito, una volta messo in moto, si comporta come un destino.
La tradizione
A quel punto smette di stare sullo sfondo e torna a essere pratica: una risposta arcaica e terribilmente pragmatica all’agonia, alla richiesta di fine, alla stanchezza di un corpo.
Pau colloca la vicenda in una Sardegna attraversata dalla modernità nel suo volto più brutale: la guerra, i bombardamenti, Cagliari come città spezzata. Questa scelta cambia il tono di tutto, perché la morte smette di restare un evento privato e diventa un fatto collettivo: cade dall’alto, entra nelle case come cronaca, si deposita nella polvere dei rifugi. In un tempo così, la “buona morte” smette di appartenere soltanto a una stanza. Diventa una domanda che rimbalza tra le strade, nei corridoi improvvisati, nelle case svuotate. La pietà, in questo contesto, funziona come una linea di confine che ogni persona traccia dove riesce, spesso dove viene spinta.
Il film sceglie un approccio laterale
Non costruisce un catechismo dell’accabadora: la circonda, la avvicina, la lascia emergere per lampi. La comunità la guarda con un rispetto che contiene timore e utilità, una forma di riconoscimento che somiglia più a un patto tacito che a un’ammirazione aperta. Annetta serve, e proprio per questo resta ai margini. Ed è qui che il film diventa interessante: dietro l’aura quasi spettrale, il fantasma più insistente è quello della responsabilità. Chi paga davvero il prezzo dei gesti che una comunità domanda, utilizza, poi archivia nel silenzio?
Dentro questa cornice entra anche un legame. Annetta cerca Tecla, una ragazza che la costringe a riaprire il passato e a misurarsi con un ruolo ereditato. La storia la definisce “moderna” nel passaggio dalla campagna alla città, quasi a suggerire una verità poco comoda: la modernità non cancella i compiti antichi, li sposta. Li rende più isolati. Li costringe a muoversi senza protezione, lontano dagli sguardi che un tempo li contenevano dentro una ritualità condivisa. Annetta resta in mezzo a due pressioni: il dovere di un compito che molti preferiscono vedere solo di sbieco, e un desiderio più semplice e quasi imbarazzante nella sua normalità: avere una vita che non coincida interamente con una funzione.
Visto oggi su Prime Video (il film è del 2015), il film conserva questa qualità: è breve, concentrato, costruito per clima. La regia di Enrico Pau lavora per atmosfere, Donatella Finocchiaro porta in scena una durezza che non diventa mai posa, e il cast accompagna la storia verso il dramma più che verso la dimostrazione. Alla fine rimane una sensazione fisica: una pressione sullo sterno, come dopo avere guardato a lungo una zona della vita che di solito viene coperta da parole troppo lisce.
Il romanzo di Michela Murgia
Maria, Tzia Bonaria e l’educazione al segreto
Nel romanzo “Accabadora” (Einaudi, 2009) la figura entra in scena in modo diverso, più domestico, quindi più tagliente. La storia parte da Soreni, paese immaginario dell’interno sardo, e da una bambina: Maria Listru, ultima di quattro figlie, dentro una famiglia povera. Bonaria Urrai, sarta del paese, la prende con sé come fill’e anima: figlia scelta, “generata due volte”, dalla necessità di una donna e dalla sterilità dell’altra. In questo gesto c’è già una tesi che il romanzo pronuncia senza proclami: la maternità vive anche di decisione, e quando diventa decisione pretende una fedeltà delicata, quotidiana, concreta.
Murgia costruisce un’educazione sentimentale asciutta. Maria cresce in una casa che le offre rispetto, protezione, un futuro; e le offre anche un codice: i silenzi. Bonaria è una madre che governa il mondo con la pratica: lavora, cuce, sistema, regge. La tenerezza appare misurata, quasi disciplinata, come se l’eccesso fosse un lusso pericoloso. La loro intesa prende valore proprio perché nasce da una scelta e da un patto: presenza in cambio di casa, cura in cambio di destino. E dentro quel patto si infiltra ciò che il paese sa e gestisce con una forma di cecità selettiva: Bonaria è anche un’accabadora, chiamata a portare una morte pietosa quando viene richiesta.
Qui il romanzo diventa più feroce. Perché sulla pagina l’accabadora smette di essere soltanto una figura di tradizione: diventa una madre. Un’ultima madre, nel senso più inquietante: colei che arriva quando la vita chiede chiusura. Murgia la colloca in un punto in cui le categorie pulite si rompono. La pietà può ferire. L’amore può spezzare. La verità può entrare in casa come una lama, proprio in una casa che sembrava finalmente stabile.
Quando Maria scopre, la frattura arriva come una conseguenza naturale. E qui il libro compie un gesto raro: lascia che il giudizio morale si sporchi di legame. Le sentenze funzionano bene quando restano astratte; diventano complicate quando prendono il volto di chi ha cucito i tuoi vestiti, apparecchiato la tavola, costruito una possibilità. La domanda allora si allarga: riguarda la morte, certo, ma riguarda soprattutto la famiglia. Riguarda il prezzo delle scelte. Riguarda la delega: il modo in cui una comunità affida a qualcuno ciò che non vuole sostenere in prima persona, poi scarica su quel qualcuno il peso della colpa.
Murgia, in questo, scrive un romanzo sul potere dei ruoli: ruoli che salvano e insieme consumano, ruoli che proteggono e insieme isolano, ruoli che passano di mano come un’eredità senza gloria. Bonaria resta una figura che non cerca assoluzioni e non chiede applausi. Sta al centro di un conflitto che nasce proprio dall’amore: perché amare, qui, significa anche scegliere, e scegliere significa ferire qualcuno. A volte significa ferire chi si ama.
Due opere nella stessa stanza
Mettere film e romanzo nella stessa stanza chiarisce la differenza più importante.
Nel film l’accabadora attraversa la storia con un’aura quasi pubblica: una figura che cammina dentro un tempo storico, tra città ferite e morte collettiva. Nel libro l’accabadora attraversa una casa: entra nel cuore di un patto, lo incrina, costringe a rinegoziare ciò che si chiama famiglia. Il film lega il tema alla città, alla guerra, al destino che incombe dall’alto; il romanzo lo lega alla maternità scelta, alla crescita, al tradimento percepito, a una possibile riconciliazione che rimane sempre un lavoro, mai un premio.
Sotto queste differenze, però, resta un nucleo comune: il confine. Cura e colpa vivono nella stessa stanza, e cambiano posto a seconda di chi guarda, di chi chiede, di chi subisce, di chi compie. È qui che film e romanzo offrono qualcosa di raro a un pubblico ampio: un lessico per nominare ciò che spesso viene ridotto a slogan, e immagini capaci di tenere insieme la complessità senza trasformarla in un tribunale e senza addomesticarla in una favola.
Guardare “L’Accabadora” su Amazon Prime Video ha anche un effetto particolare: le piattaforme spingono ogni titolo nello stesso flusso, nello stesso gesto rapido, nella stessa distrazione. Questo film, invece, conserva peso. Chiede attenzione. Chiede una disponibilità a restare nel grigio, dove le certezze arrivano sempre in ritardo e le ragioni si toccano, si contraddicono, si feriscono.
E se il romanzo di Murgia suggerisce che alcune madri coincidono con una scelta prima ancora che con la dolcezza, il film di Pau aggiunge un’altra verità: certi ruoli, dentro una comunità, esistono proprio perché molti preferiscono non guardarli in faccia. Eppure, quando il dolore stringe, quel ruolo torna a bussare. Non come leggenda, ma come domanda, come gesto, come responsabilità.
