Nei versi conclusivi della poesia La fiera dei miracoli, Wislawa Szymborska ci consegna una riflessione di sorprendente semplicità e insieme di vertiginosa profondità. La poetessa polacca, premio Nobel per la letteratura nel 1996, ha costruito gran parte della sua produzione su un’arte apparentemente disarmata: nominare ciò che tutti conoscono, ciò che abbiamo sotto gli occhi, e al tempo stesso rivelarne l’invisibile meraviglia.
La poesia si chiude con queste parole:
Un miracolo – e come chiamarlo altrimenti:
oggi il sole è sorto alle 3.14
e tramonterà alle 20.01.
Un miracolo che non stupisce quanto dovrebbe:
la mano ha in verità meno di sei dita,
però più di quattro.
Un miracolo, basta guardarsi intorno:
il mondo onnipresente.
Un miracolo supplementare, come ogni cosa:
l’inimmaginabile
è immaginabile.
Questi versi possono sembrare ironici o persino giocosi, ma dietro il tono colloquiale si cela un discorso sulla nostra capacità di percepire il mondo e sul rischio di abituarsi all’eccezionale fino a non riconoscerlo più.
Wislawa Szymborska e il miracolo dell’ordinario
Il primo “miracolo” che Wislawa Szymborska elenca è quello dell’astronomia quotidiana: “oggi il sole è sorto alle 3.14 e tramonterà alle 20.01”. Non c’è nulla di soprannaturale in questa constatazione, anzi: è un dato scientifico, preciso fino al minuto. Ma è proprio questa puntualità a rivelare la meraviglia. Il cosmo segue ritmi che noi possiamo calcolare con esattezza, e la regolarità di questo movimento è la condizione stessa della vita. La poetessa ci ricorda che ciò che diamo per scontato – il sorgere e il tramontare del sole – è in realtà il più grande dei miracoli, un fenomeno che rende possibile la nostra esistenza.
Nominare gli orari del giorno non è dunque un gioco, ma un modo per dirci che la poesia può stare dentro la precisione, che la meraviglia non si oppone alla scienza, ma la attraversa.
La mano: misura dell’umano
Il secondo “miracolo” è la mano. Szymborska osserva con disarmante ironia che essa “ha in verità meno di sei dita, però più di quattro”. Un dettaglio banale, quasi ridicolo, ma proprio per questo carico di significato. La mano è uno degli strumenti fondamentali della nostra specie: con cinque dita possiamo afferrare, costruire, scrivere, accarezzare. Non ne abbiamo sei, non ne abbiamo quattro, ma cinque: il numero giusto per renderci ciò che siamo.
Qui il miracolo non è un prodigio soprannaturale, ma il semplice equilibrio della natura. È la coincidenza perfetta tra ciò che esiste e ciò che serve. Szymborska, con una leggerezza quasi infantile, ci mostra che anche il nostro corpo, spesso ignorato nella sua quotidianità, è motivo di stupore.
Il mondo onnipresente
Segue un verso che allarga lo sguardo: “Un miracolo, basta guardarsi intorno: il mondo onnipresente.” Non serve cercare altrove, in luoghi remoti o in esperienze eccezionali, per trovare il prodigio. Basta alzare lo sguardo, osservare ciò che ci circonda.
L’aggettivo “onnipresente” richiama un’aura quasi religiosa, come se il mondo stesso fosse una divinità che si manifesta senza interruzione. Ma non è un invito a mistiche astrazioni: è un’esortazione concreta, quotidiana. Il mondo c’è, sempre. Ci avvolge con la sua presenza costante. La difficoltà sta non nel trovarlo, ma nel riconoscerlo.
L’inimmaginabile immaginabile
La poesia si conclude con una riflessione che trascende l’osservazione empirica: “Un miracolo supplementare, come ogni cosa: l’inimmaginabile è immaginabile.” È questo il vero paradosso che Szymborska ci consegna.
Il miracolo non è solo che il sole sorga, che la mano abbia cinque dita o che il mondo sia qui con noi. Il miracolo è la facoltà umana di pensare ciò che non esiste ancora, di figurarsi l’inconcepibile. La poesia stessa è testimonianza di questa capacità: immaginare l’inimmaginabile significa ampliare i confini del reale, dar forma a ciò che la logica escluderebbe.
Questa chiusa mette in luce il valore filosofico della poesia di Szymborska. L’essere umano, pur fragile e limitato, possiede un dono che lo rende capace di oltrepassare i confini dell’esperienza sensibile. Il linguaggio, l’immaginazione, la capacità simbolica: tutto ciò ci permette di abitare un mondo più ampio di quello che tocchiamo con mano.
La poetica dell’ordinario
La forza di questi versi risiede nel loro paradosso: nulla di ciò che la poetessa chiama “miracolo” è straordinario nel senso comune del termine. Non ci sono apparizioni divine, guarigioni prodigiose o eventi soprannaturali. I miracoli sono gli orari del sole, le cinque dita di una mano, la presenza costante del mondo, la possibilità di pensare l’impossibile.
Szymborska, con la sua tipica ironia, ci mostra che il vero miracolo è l’esistenza stessa, nella sua normalità. La sua poesia ci educa allo stupore, ci costringe a fermarci davanti a ciò che di solito non merita la nostra attenzione. È una lezione di umiltà, ma anche di grande fiducia nella capacità umana di riconoscere la bellezza nascosta.