Wisława Szymborska, premio Nobel per la Letteratura nel 1996, ha fatto della precisione poetica e della leggerezza filosofica il proprio stile unico e inconfondibile. Nei versi tratti dalla poesia Una vita all’istante, l’autrice polacca offre una riflessione acuta e universale sulla condizione umana, servendosi di una metafora teatrale per raccontare l’impossibilità di prepararsi davvero alla vita. In questa poesia, il palcoscenico non è altro che la quotidianità dell’esistere; e la protagonista, come ognuno di noi, si trova catapultata sulla scena senza prove, senza un copione, senza istruzioni.
Una vita all’istante.
Spettacolo senza prove.
Corpo senza modifiche.
Testa senza riflessione.
Non conosco la parte che recito.
So solo che è la mia, non mutabile.
Il soggetto della pièce
va indovinato direttamente in scena.
Mal preparata all’onore di vivere,
reggo a fatica il ritmo imposto dell’azione.
Improvviso, benché detesti improvvisare.
Wislawa Szymborska e una vita senza “secondo ciack”
Una vita all’istante.
Spettacolo senza prove.
L’incipit è folgorante. In due versi, Wislawa Szymborska ci catapulta nell’assurdo teatrale dell’esistenza: una vita all’istante è, per definizione, qualcosa di effimero e sfuggente. Non c’è possibilità di replica, né di preparazione. Tutto avviene ora, qui, improvvisamente. Il “senza prove” non è solo un’allusione alla mancanza di esercizio o di preavviso: è la constatazione che la vita non concede esercitazioni o revisioni, e che ogni nostro gesto, anche il più banale, è definitivo nella sua irripetibilità.
Corpo senza modifiche.
Testa senza riflessione.
La seconda coppia di versi sottolinea l’immediatezza e la rigidità della condizione umana. Il “corpo senza modifiche” è il nostro corpo dato, la nostra identità fisica non scelta, che ci accompagna come unico strumento per agire e vivere. È una constatazione che sa di vulnerabilità e di destino. Allo stesso tempo, la “testa senza riflessione” suggerisce che spesso ci troviamo a vivere — o meglio, a recitare — senza il tempo o la possibilità di pensare, di valutare le conseguenze, di capire ciò che stiamo facendo. Szymborska non denuncia qui l’irriflessione come colpa morale, ma la presenta come una condizione ineluttabile dell’esistere in tempo reale.
Non conosco la parte che recito.
So solo che è la mia, non mutabile.
Qui si fa esplicita la metafora del teatro. L’io lirico — alter ego della poetessa, ma anche rappresentante di ogni essere umano — riconosce di trovarsi in una pièce di cui non conosce il ruolo. Eppure quella parte è “sua”, le è propria e intrasferibile, anche se non può modificarla. In questo passaggio la poesia tocca una delle domande centrali della filosofia e della letteratura: quanto siamo autori della nostra vita e quanto invece siamo attori, soggetti a un copione misterioso e immutabile? L’apparente contraddizione tra il non conoscere la parte e l’impossibilità di cambiarla è proprio ciò che genera ansia, spaesamento, e insieme un sentimento tragico.
Il soggetto della pièce
va indovinato direttamente in scena.
Ecco l’aspetto forse più inquietante e insieme affascinante della riflessione di Szymborska: non solo non c’è copione, non solo non c’è preparazione, ma il senso stesso della rappresentazione — il “soggetto” — va scoperto mentre si agisce. Non c’è un significato prestabilito della vita, non c’è un regista a darci istruzioni. La comprensione di ciò che stiamo vivendo si costruisce mentre lo viviamo, un momento dopo l’altro. È un invito a osservare l’esistenza non come una narrazione lineare con un fine noto, ma come un enigma in continua evoluzione, il cui significato è sempre parziale, sempre provvisorio.
Mal preparata all’onore di vivere,
reggo a fatica il ritmo imposto dell’azione.
Il tono si fa ora più intimo, quasi confessionale. “Mal preparata all’onore di vivere” è un verso di straordinaria delicatezza: vivere è un onore, una responsabilità nobile e solenne, ma si arriva a questa chiamata senza strumenti, senza armature. E questo onore pesa. Reggere “a fatica” il ritmo dell’azione significa non solo essere in difficoltà, ma anche riconoscere che la vita ha una propria andatura, una spinta, una velocità che non sempre coincide con i nostri tempi interiori. In queste parole vibra la consapevolezza di una poetessa che ha attraversato il Novecento e le sue tragedie, ma che non rinuncia a una dolcezza ironica e disincantata.
Una vita all’istante
Improvviso, benché detesti improvvisare.
Il finale condensa l’intero significato della poesia. Improvvisare è necessario, ma è anche qualcosa che l’io lirico dichiara di detestare. Non è un rifiuto dell’avventura, ma il desiderio — umano e comprensibile — di capire, di prevedere, di controllare. Szymborska ci dice che la vita è teatro d’improvvisazione, e che siamo tutti attori riluttanti, spesso goffi, spesso confusi, ma irrimediabilmente in scena. Non possiamo uscire, non possiamo chiedere una pausa: possiamo solo continuare a improvvisare, con umiltà, con paura, con stupore.