Questa citazione di Elio Vittorini, tratta da uno dei suoi romanzi più noti, Conversazione in Sicilia (1941), rappresenta una delle riflessioni più profonde e disilluse sul rapporto tra l’individuo e i doveri imposti dalla società. In queste parole, pronunciate da uno dei personaggi durante il viaggio interiore e geografico del protagonista, si riflette un disagio esistenziale e morale che attraversa non solo la modernità, ma anche le crisi politiche e spirituali del Novecento italiano.
“Non proviamo più soddisfazione a compiere il nostro dovere, i nostri doveri… Compierli ci è indifferente. Restiamo male lo stesso. E io credo che sia proprio per questo… Perché sono doveri troppo vecchi, troppo vecchi e divenuti troppo facili, senza più significato per la coscienza.”
Elio Vittorini e la sua illuminata coscienza sociale
Il dovere, tradizionalmente, è stato considerato una componente essenziale dell’etica personale e collettiva. Esso rappresenta l’impegno dell’individuo nei confronti degli altri, della famiglia, della patria, della comunità. Ma in questo passo, Vittorini coglie un elemento rivoluzionario: la perdita di significato del dovere quando esso diventa ripetizione meccanica, gesto privo di partecipazione emotiva e coscienza critica. Il dovere, per essere vivo, deve essere anche sentito. Deve corrispondere a un’intima convinzione, non a un automatismo.
La constatazione è dolorosa: “Compierli ci è indifferente. Restiamo male lo stesso.” Questo significa che l’adempimento dei doveri non procura più soddisfazione, né conforto. Non c’è sollievo nel “fare il proprio dovere” quando quest’ultimo non risponde più a un bisogno autentico o a un ideale sentito. Si continua ad agire per abitudine, per inerzia, per convenzione, ma interiormente si è distaccati. La coscienza, svuotata di senso, non partecipa più all’azione.
Il passaggio fondamentale, però, è nella spiegazione: “Perché sono doveri troppo vecchi, troppo vecchi e divenuti troppo facili, senza più significato per la coscienza.” La vecchiezza dei doveri qui indicata non è meramente cronologica, ma riguarda la loro obsolescenza morale e sociale. Si tratta di norme, imperativi, consuetudini che un tempo avevano un valore, ma che con il mutare della realtà storica e culturale non rispondono più ai bisogni dell’uomo contemporaneo. Sono doveri che hanno perduto il loro contenuto etico, ma che ancora persistono formalmente, come simulacri.
Questo tipo di alienazione si inserisce perfettamente nel clima storico in cui Conversazione in Sicilia fu concepito. Il romanzo venne scritto durante il fascismo, in un momento in cui la società italiana era soffocata da una retorica di Stato che esaltava proprio il concetto di “dovere”, specialmente nei confronti della patria e del regime. In questo contesto, il dovere viene trasformato in un meccanismo di controllo, in uno strumento per disattivare il pensiero critico. L’ideologia fascista imponeva doveri che non avevano più nulla di etico, ma che servivano a perpetuare l’ordine e a neutralizzare la coscienza individuale.
Vittorini, tuttavia, non si limita a una critica storica. Il suo discorso è più universale. Ci invita a chiederci: quando un dovere smette di essere morale? Quando, cioè, non interpella più la nostra coscienza? E ci costringe a riflettere sulla differenza tra dovere e responsabilità. Un dovere esterno, imposto e svuotato di senso, può essere adempiuto senza che la persona vi riconosca un valore; una responsabilità, invece, è sempre assunta in prima persona, ed è sentita come tale.
La crisi dei doveri descritta da Vittorini anticipa temi che verranno ripresi anche da filosofi e sociologi del secondo Novecento, come Hannah Arendt o Zygmunt Bauman. Arendt, in particolare, nel suo lavoro su La banalità del male, metterà in luce come l’obbedienza cieca ai doveri imposti da un sistema possa portare a un annichilimento della coscienza morale. Anche Bauman, riflettendo sulla modernità liquida, parlerà della dissoluzione dei codici etici tradizionali e della necessità di ritrovare un’etica che nasca dal rapporto concreto con l’altro, non da norme astratte e svuotate.
Conversazioni in società
Nel romanzo, il protagonista Silvestro compie un viaggio in Sicilia che è anche un viaggio dentro sé stesso e dentro la memoria collettiva. Incontra figure simboliche, voci della tradizione popolare, presenze materne e fraterne, che lo portano a riscoprire un rapporto autentico con la realtà. È attraverso l’esperienza, e non attraverso i vecchi doveri, che si può tornare a sentire, a pensare, a scegliere. La coscienza si riattiva nel contatto con l’umano, non nella ripetizione meccanica dei gesti.
In conclusione, le parole di Vittorini ci pongono di fronte a una verità inquietante ma necessaria: i doveri che non parlano più alla coscienza non sono solo inutili, ma dannosi. Ci spingono a vivere senza partecipazione, ad agire senza sentire, a rassegnarci all’apatia. Recuperare il significato dei nostri gesti morali implica ripensare i doveri alla luce della storia, della giustizia, della responsabilità verso gli altri. Solo così essi possono tornare a essere vivi, generativi, capaci di dare forma a una vita degna e consapevole.