I versi di Trilussa sul caldo che fa ricordare gioie e dolori

25 Luglio 2025

Leggiamo questi versi in cui Trilussa poetando di un'afosa giornata d'agosto in cui cantano cicale e grilli, canta anch'egli la sua canzone dei ricordi.

I versi di Trilussa sul caldo che fa ricordare gioie e dolori

Nei versi della poesia “Per cui…” di Trilussa — maestro della poesia romanesca e dell’osservazione acuta della quotidianità — si ritrova, ancora una volta, la capacità del poeta di unire leggerezza e riflessione, ironia e malinconia. Il brano:

Er solleone abbrucia la campagna,
la Cecala rifrigge la canzone
e er Grillo scocciatore l’accompagna.
– È la solita lagna! –
dico fra me: ma poi
penso che pure noi,
chi più chi meno, semo tutti quanti
sonatori ambulanti.
Perché ciavemo tutti in fonno ar core
la cantilena d’un ricordo antico
lasciato da una gioja o da un dolore.

offre uno squarcio estivo e campestre, ma anche uno sguardo profondo sull’animo umano. Da una scena apparentemente banale – un pomeriggio afoso d’agosto, con il frinire degli insetti – Trilussa trae una riflessione esistenziale delicata e universale.

Trilussa e la campagna nell’arsura

L’apertura della poesia ci trasporta immediatamente in un paesaggio mediterraneo familiare, bruciato dal solleone, ossia il sole cocente di mezzogiorno, tipico dell’estate romana. La campagna è immobile, quasi arsa viva, mentre la Cecala, cioè la cicala, canta ostinatamente. Il suo canto viene descritto con un verbo efficace e ironico: “rifrigge”, come se il suono stesso aumentasse il calore. Il Grillo, definito “scocciatore”, si unisce al concerto con la sua ostinata nota. È la natura che fa rumore, che insiste, che ripete. E il poeta, con il suo spirito ironico, liquida inizialmente il tutto con un commento sbrigativo: “È la solita lagna!”

Qui emerge la voce urbana, cittadina, forse un po’ infastidita dalla monotonia della campagna, dallo scenario ripetitivo delle giornate estive, dove ogni cosa sembra immobile e uguale. Ma basta una pausa, un respiro, ed ecco che Trilussa rovescia il pensiero.

Tutti sonatori ambulanti

“Ma poi / penso che pure noi, / chi più chi meno, semo tutti quanti / sonatori ambulanti.”
Questa strofa rappresenta il vero cuore della poesia. L’irritazione iniziale si trasforma in consapevolezza: anche noi, esseri umani, siamo portatori di canti monotoni, di motivi interiori che ripetiamo, consapevolmente o meno, lungo tutta la vita. Non siamo diversi dalla cicala o dal grillo: abbiamo dentro di noi una “cantilena” che ci accompagna. E questa cantilena è fatta di ricordi, di emozioni, di momenti che ci hanno segnato.

L’espressione “sonatori ambulanti” è un’immagine splendida: vagabondi dell’anima che portano ovunque il loro strumento invisibile, il proprio bagaglio emotivo e mnemonico. È un’immagine di dignità e fragilità insieme: non c’è nulla di altisonante o eroico in questi sonatori, ma c’è un senso profondo di umanità condivisa. Nessuno è escluso da questa condizione: “chi più chi meno”, dice il poeta con la sua consueta bonomia.

La cantilena del cuore

Nell’ultima strofa, la riflessione trova il suo punto più alto:
“Perché ciavemo tutti in fonno ar core / la cantilena d’un ricordo antico / lasciato da una gioja o da un dolore.”
Qui Trilussa raggiunge un’intensità lirica che sorprende per la sua sincerità. La “cantilena” non è altro che il suono interiore del ricordo, che può nascere tanto dalla gioia quanto dal dolore. È una musica che resta, che non si dimentica, e che continua a suonare in sordina nelle giornate della nostra vita. La ripetizione della parola “cantilena”, con il suo ritmo ipnotico e dolce, suggerisce un’eco lontana, qualcosa che non possiamo scacciare, ma che accompagna il nostro essere.

Trilussa non distingue tra chi ha avuto una vita felice e chi ne ha avuta una dolorosa: tutti abbiamo qualcosa che ci canta dentro. E questo qualcosa, che si ripete come il frinire della cicala, ci rende umani.

Una poesia tra ironia e tenerezza

Come spesso accade nella poesia di Trilussa, la leggerezza iniziale — quasi comica — si trasforma lentamente in introspezione. Il poeta non giudica, non si erge a moralista, ma osserva con un sorriso le somiglianze tra la natura e l’uomo. Il grillo, la cicala, l’uomo: tutti accomunati da un bisogno di espressione, da una musica interiore.

L’uso del romanesco è fondamentale: il dialetto dona immediatezza e verità alla poesia. Non è soltanto un fatto linguistico, ma esistenziale. Il romanesco qui diventa il linguaggio autentico di un’umanità che si guarda allo specchio senza maschere. E la scelta di parole come “lagna”, “scocciatore”, “ciavemo”, contribuisce a rendere l’esperienza del lettore vicina, tangibile, quotidiana.

I versi di Trilussa ci insegnano che l’essere umano è fatto, in fondo, di memoria e di musica. Ogni persona porta in sé una “cantilena”: talvolta fastidiosa come quella degli insetti sotto il sole, talvolta dolce come una melodia malinconica. Ma sempre viva, sempre presente.
La poesia “Per cui…” ci ricorda con delicatezza che la memoria è ciò che ci definisce, che la gioia e il dolore non passano mai del tutto, e che anche nei giorni più banali e afosi può risuonare il canto misterioso dell’anima.
E allora forse vale la pena fermarsi, ascoltare — non solo i grilli e le cicale — ma anche quel suono inconfondibile che ciascuno di noi porta nel cuore.

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