I versi di Sandro Penna in cui si vede cielo dentro gli occhi

13 Agosto 2025

Leggiamo questi candidi e al contempo ustionanti versi di Sandro Penna, in cui il poeta sa che nell'amore si prega davvero, solo nell'amore.

I versi di Sandro Penna in cui si vede cielo dentro gli occhi

Sandro Penna, poeta appartato e di rara delicatezza, ha lasciato nella letteratura italiana del Novecento un segno inconfondibile, fatto di liriche brevi, intense e intrise di una sensibilità che unisce immediatezza e profondità. I versi  si collocano perfettamente in questa poetica essenziale e rivelano una delle tensioni più vive dell’autore: la ricerca di un sacro intimo, terreno, radicato nelle esperienze e nelle visioni della vita quotidiana.

«Il cielo è vuoto. Ma negli occhi neri
di quel fanciullo io pregherò il mio dio.»

Sandro Penna e la preghiera dell’amore

L’apertura del testo — «Il cielo è vuoto» — porta con sé una dichiarazione dirompente. In poche parole, Sandro Penna esprime una sensazione di assenza di Dio nel senso tradizionale: il cielo, simbolo millenario del divino trascendente, appare privo di presenze, muto, distante. Non c’è qui la consolazione di un’entità superiore che veglia dall’alto, né il conforto di una religione convenzionale. La frase è secca, definitiva, quasi priva di emozione apparente, e proprio per questo risuona forte, come un atto di disincanto. È una visione che potrebbe essere letta come un riflesso dell’atteggiamento laico e antiretorico del poeta, ma che, al contempo, non chiude alla possibilità del sacro: semplicemente, lo sposta altrove.

Ed è proprio il «ma» a segnare questa svolta. Se il cielo è vuoto, la divinità non è svanita, ma si trova in un altro luogo — o meglio, in un’altra forma. La seconda parte del verso recita: «Ma negli occhi neri / di quel fanciullo io pregherò il mio dio.» Qui Penna compie il passaggio decisivo: il divino non è proiettato verso l’alto, ma incarnato nello sguardo di una persona concreta, un “fanciullo” di cui non conosciamo il nome né la storia, ma che diventa portatore di un’assoluta rivelazione.

Lo sguardo, nella poesia, è spesso metafora di conoscenza, di contatto diretto con l’anima. Gli “occhi neri” evocano profondità, mistero, attrazione, ma anche un senso di intensità quasi magnetica. Penna non dice semplicemente che ammira il fanciullo: egli “pregherà” il suo dio in quegli occhi. Questo verbo, “pregare”, trasporta il discorso in un ambito religioso, ma di una religiosità personale, privata, dove la sacralità si manifesta nell’incontro umano e nell’esperienza estetica e affettiva.

In questo gesto poetico c’è un rovesciamento della prospettiva tradizionale: Dio non è un’entità lontana e imperscrutabile, ma si rivela nel volto di un essere vivente, nel calore umano, nella bellezza effimera. Per Penna, che ha sempre guardato alla realtà con uno sguardo amoroso e sensuale, il divino non è separato dal desiderio, dall’eros, dalla vitalità. Il fanciullo — figura ricorrente nella sua opera — diventa simbolo di purezza e insieme di attrazione terrena, capace di unire sacro e profano.

Il contrasto tra il “cielo vuoto” e gli “occhi neri” è anche un contrasto spaziale e simbolico: dall’infinitamente distante si passa all’infinitamente vicino. Questa scelta poetica potrebbe essere letta come una dichiarazione di poetica: Penna non cerca consolazioni metafisiche inaccessibili, ma trova senso e pienezza nel mondo immediato, nelle cose e nelle persone che può vedere, toccare, vivere. La sua spiritualità è dunque immanente, incarnata, fatta di incontri e percezioni concrete.

L’uso del futuro semplice, “pregherò”, introduce un senso di promessa, di atto deliberato: non si tratta di un’emozione passeggera, ma di una scelta. Il poeta decide consapevolmente di rivolgere la propria preghiera — ossia la propria devozione, il proprio atto di contemplazione e amore — a ciò che gli è vicino e reale. È una sorta di credo personale, espresso senza proclami, ma con la forza di un’immagine limpida e indimenticabile.

Dal punto di vista formale, la brevità del testo concentra tutta l’attenzione sul nucleo concettuale e visivo. Penna lavora per sottrazione: niente orpelli retorici, nessuna digressione. Ogni parola è necessaria, e la divisione in due frasi brevi — separate da quel “ma” — dà alla lirica una struttura netta, quasi aforistica. È come se il poeta avesse scolpito due blocchi contrapposti: la negazione iniziale e l’affermazione conclusiva.

Questa poesia si inserisce perfettamente nella linea di altre composizioni di Penna dove la figura del giovane diventa centro di gravità emotiva e spirituale. È un’idea di amore e bellezza che non teme di mostrarsi fragile e vulnerabile, ma che proprio per questo diventa assoluta. Nei suoi versi, il fanciullo non è mai mera idealizzazione: è sempre immerso in un contesto reale, portatore di una luce che nasce dalla vita stessa.

«Il cielo è vuoto. Ma negli occhi neri / di quel fanciullo io pregherò il mio dio» racchiude un’intera visione del mondo: l’assenza di un Dio trascendente non è una condanna al vuoto spirituale, ma un invito a riconoscere il sacro nella bellezza e nell’intensità degli incontri umani. Penna ci ricorda che la poesia può essere preghiera, e che la preghiera può nascere non dalla lontananza, ma dalla vicinanza più intima. È una lezione di umanità e di sensibilità che, a distanza di decenni, continua a parlare con forza al lettore contemporaneo, forse ancora più che in passato.

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