In questi versi limpidi e profondi, Sandro Penna (12 giugno 1906 – 21 gennaio 1977), tra i più singolari poeti italiani del Novecento, ci offre una dichiarazione lirica che mescola amore, memoria, contemplazione e felicità. L’autore, con la sua inconfondibile voce, lieve e assoluta, mette in scena un momento di intensa percezione emotiva, in cui il passato ritorna nel presente grazie alla visione di un fanciullo. Un’esperienza che riaccende “le antiche parole dell’amore” e restituisce al poeta una felicità che si fa quasi fisica, incarnata, ma insieme rarefatta e solitaria.
“Ritornano, per me, ora le antiche
parole dell’amore. In te, fanciullo,
splendono. Giuocano nei tuoi passi
incerti. Ma certa in me cammina
solitaria e tranquilla la felicità.”
Il ritorno delle “antiche parole” nei versi di Sandro Penna
Il primo verso stabilisce subito un tono evocativo: “Ritornano, per me, ora le antiche / parole dell’amore”. L’amore, dunque, ha già parlato in passato, ha lasciato tracce. La parola “ritornano” implica un movimento della memoria, come un’onda che riporta alla riva sensazioni già vissute. Le “antiche parole” non sono semplici suoni: sono esperienze, emozioni, promesse, forse illusioni. Esse non riaffiorano da sole, ma tornano per effetto della visione di un altro: “In te, fanciullo, / splendono”.
Qui entra in scena il destinatario poetico: il fanciullo, figura centrale nell’opera di Penna. Non si tratta di un individuo definito, ma di un’icona della giovinezza, della grazia, dell’innocenza, e insieme della bellezza fugace. Questo ragazzo non è necessariamente oggetto di un amore carnale o romantico, ma piuttosto di un’adorazione lirica, di un amore contemplativo che è anche sguardo poetico sul mondo.
Le “parole dell’amore” non sono statiche: splendono, giuocano. Questo verbo, “giuocano” — scritto con la grafia arcaica che Penna predilige per evocare delicatezza — aggiunge leggerezza e movimento. L’amore non è solo un ricordo, ma si fa presente nei “passi / incerti” del fanciullo. C’è qui un contrasto suggestivo: i passi sono incerti, forse quelli dell’adolescenza, di una crescita ancora non compiuta; ma la forza luminosa delle parole d’amore li accompagna. È come se l’amore, nella sua forma più pura, risiedesse proprio in quella fragilità, in quella incertezza che lascia spazio alla meraviglia.
Ma il cuore del testo risiede nella strofa finale, che racchiude un’apparente contraddizione: “Ma certa in me cammina / solitaria e tranquilla la felicità.” A dispetto dell’incertezza nei passi del ragazzo, la felicità del poeta è certa. Questa affermazione, così netta, è sorprendente, perché raramente nella poesia novecentesca la felicità si dichiara con tanta sicurezza.
Eppure, questa felicità è anche “solitaria e tranquilla”: non condivisa, non rumorosa, non esibita. Cammina “in me”, dice il poeta, come se fosse un’entità autonoma, una presenza interiore che non ha bisogno di grandi manifestazioni. L’ossimoro implicito tra “felicità” e “solitaria” spezza le attese del lettore: ci si aspetterebbe che la felicità sia condivisione, comunione, ma per Penna essa è intima, personale, e in un certo senso malinconica. Il poeta è felice non perché possiede l’amore, ma perché ha riconosciuto la sua bellezza, la sua luminosità nel mondo.
Una poetica della semplicità e della luce
Questo componimento riflette l’intera poetica di Sandro Penna, che rifiuta i clamori e le complessità retoriche per abbracciare una scrittura limpida, musicale, essenziale. La sua poesia è fatta di sguardi, di presenze fugaci, di apparizioni. Egli non cerca l’epica, ma l’istante; non la conquista, ma la rivelazione.
Penna è stato spesso considerato un poeta marginale, per la sua omosessualità vissuta con pudore e discrezione, e per il suo stile estraneo ai grandi movimenti letterari. Tuttavia, è proprio in questa marginalità che risiede la sua forza. Egli ha saputo parlare della bellezza e del desiderio in modo del tutto personale, con un linguaggio che unisce la dolcezza del canto all’acutezza dello sguardo. Nei suoi versi, il tempo si ferma, e ogni gesto quotidiano — un passo, un sorriso, un gioco — diventa sacro.
La felicità di cui parla Penna in questi versi è radicalmente diversa da quella proposta dalla società dei consumi o dall’immaginario amoroso tradizionale. Non nasce dal possesso, ma dall’osservazione; non ha bisogno di reciprocità, perché è già compiuta nello sguardo. È una felicità estetica, spirituale, quasi zen: la gioia di chi sa riconoscere la bellezza nel mondo e ne accoglie la grazia, pur sapendo che non durerà.
Ed è proprio questa consapevolezza che rende autentica la felicità descritta da Penna: sapere che tutto è effimero, e amare comunque. Non c’è illusione, né ingenuità. La felicità “cammina” — altro verbo chiave — come se fosse un essere vivo. Non corre, non scalpita: procede con passo tranquillo, forse perché sa che non ha bisogno di altro per esistere se non della coscienza del poeta.
In questo breve ma intenso componimento, Sandro Penna riesce a toccare alcuni dei temi più profondi della poesia: l’amore, il ricordo, la bellezza, la solitudine, la felicità. Lo fa con uno stile sobrio e musicale, che sembra sospeso tra il canto infantile e la riflessione metafisica. Nei passi incerti di un fanciullo, il poeta ritrova l’eco delle parole d’amore, e in quell’eco trova, in modo sorprendente, una felicità interiore.
È una lezione semplice e radicale: la felicità non è fuori di noi, non è in ciò che possiamo trattenere o dominare, ma in ciò che possiamo guardare e riconoscere. Come una luce che brilla per un istante e poi svanisce, ma che, in quell’istante, ci ha fatto sentire vivi.