I versi di Samuel Taylor Coleridge su cosa è la vita (1829)

24 Luglio 2025

Leggiamo assieme questi versi di Samuel Taylor Coleridge scritti nel 1829 e facenti parte della poesia "Che cosa è la vita" (What is life?).

I versi di Samuel Taylor Coleridge su cosa è la vita (1829)

Nel 1829, ormai lontano dagli entusiasmi romantici giovanili e segnato da una lunga riflessione filosofica, Samuel Taylor Coleridge scrisse alcuni versi di notevole profondità speculativa, capaci di abbracciare temi che spaziano dalla natura della coscienza alla sostanza della realtà. Il breve frammento che leggiamo — «Somiglia la vita a quel ch’era una volta / della luce, troppo vasta per l’umano sguardo?» — apre immediatamente a una visione cosmica e vertiginosa dell’esistenza, nel tentativo di oltrepassare i confini del visibile e dell’intelligibile. In questo articolo analizzeremo i versi, ponendo attenzione alle implicazioni metafisiche, filosofiche e poetiche dell’opera.

Somiglia la vita a quel ch’era una volta
della luce, troppo vasta per l’umano sguardo?
Un assoluto io – elemento senza terra –
Tutto quel che vediamo, colori d’ogni tinta
usurpati tutti all’oscurità?
È la vita da coscienza non delimitata?
E pensieri, pene, gioie di umano respiro
non son che guerra-pace di vita e morte in lotta?

Samuel Taylor Coleridge e la luce della vita

Coleridge pone fin dall’inizio una domanda, non tanto retorica quanto ontologica: “Somiglia la vita a quel ch’era una volta / della luce, troppo vasta per l’umano sguardo?”. La metafora della luce, qui, non è semplicemente visiva, ma rappresenta un’idea platonica di verità e pienezza. Una luce “troppo vasta” è una conoscenza troppo ampia, una verità troppo intensa per l’occhio umano. In questa immagine, la vita è paragonata a una rivelazione abbagliante, che eccede la nostra capacità percettiva.

Questo limite non è solo biologico — l’incapacità dell’occhio di reggere l’eccesso di luminosità — ma anche intellettuale e spirituale. La condizione umana è tale da non poter sostenere la totalità dell’essere, ma solo frammenti, riflessi, ombre. Eppure, secondo Coleridge, è in questa sproporzione che la vita prende forma.

L’assoluto io come entità senza terra

Il verso successivo — “Un assoluto io – elemento senza terra” — segna una svolta decisiva. Qui Coleridge riprende in pieno le riflessioni filosofiche che attraversarono tutta la sua maturità, in particolare il dialogo con il pensiero idealistico tedesco, da Kant a Fichte, e con la mistica cristiana. L’“assoluto io” è una chiara allusione all’Ich fichtiano: il soggetto puro, principio della realtà stessa. Ma Coleridge non si limita alla filosofia: definisce questo io come “elemento senza terra”, entità priva di radicamento, sospesa tra visione e disincarnazione.

Ciò che viene evocato è un io universale, non ancora incarnato, non legato alla materia o al tempo. In questa visione, la coscienza appare come principio originario — non prodotto dalla materia, ma suo fondamento. Tuttavia, la sua condizione è anche drammatica: essere senza terra significa essere senza corpo, senza limite, senza luogo. È un io che non appartiene al mondo, ma da esso è escluso, come l’anima prima della caduta o come la verità che non riesce a incarnarsi.

I colori dell’oscurità

L’immagine successiva — “Tutto quel che vediamo, colori d’ogni tinta / usurpati tutti all’oscurità?” — introduce un’ambiguità sorprendente. Coleridge capovolge l’associazione usuale tra luce e colore, suggerendo che ciò che percepiamo come “colorato” è in realtà un prodotto dell’oscurità. Qui riecheggia la teoria newtoniana della luce e del colore, ma anche un’interpretazione simbolica: l’oscurità come origine di ogni manifestazione, come grembo segreto da cui nasce l’apparenza. Se la luce è verità che acceca, l’oscurità è il caos primigenio da cui tutto emerge.

In questa prospettiva, il mondo visibile non è che una proiezione effimera di forze profonde, invisibili, inconoscibili. L’esperienza sensibile diventa così una forma di usurpazione, un’appropriazione instabile dell’informe. I colori, le forme, la varietà dell’esperienza non sono realtà autonome, ma derivazioni da un fondo oscuro e misterioso, forse inconoscibile.

Una coscienza senza confini

Il verso “È la vita da coscienza non delimitata?” prosegue nella stessa direzione. Coleridge sembra interrogarsi qui su quale sia la vera natura dell’esistenza. È essa, forse, una coscienza illimitata, senza barriere, senza forma precisa? Ancora una volta si sente l’eco delle dottrine idealistiche e della mistica neoplatonica: la coscienza come totalità originaria, non individuale, non divisibile. Ma una coscienza non delimitata è anche una coscienza instabile, che non può dire “io” nel senso ordinario del termine, perché non ha confini che le permettano di distinguersi da ciò che non è.

In questa tensione tra infinito e forma, tra illimitato e identità, si gioca il dramma dell’esistenza. L’essere umano, nella visione coleridgiana, è una coscienza che anela all’infinito, ma che al tempo stesso ha bisogno di limite per esistere. La vita, allora, è forse il continuo tentativo di abitare questa contraddizione.

La guerra-pace tra vita e morte

L’ultima parte del frammento offre un’immagine intensamente dialettica: “E pensieri, pene, gioie di umano respiro / non son che guerra-pace di vita e morte in lotta?”. Coleridge qui descrive l’esperienza umana come un campo di battaglia tra principi opposti: vita e morte, gioia e pena, pensiero e sofferenza. Ma, significativamente, usa l’espressione “guerra-pace”, un ossimoro che suggerisce la coesistenza, non la semplice alternanza, di queste forze. La nostra esperienza più intima, quella dei sentimenti e dei pensieri, non è che il riflesso di un conflitto cosmico che ci attraversa.

Ciò che chiamiamo esistenza non è stabile, né unitaria, ma l’effetto di una tensione continua, un’oscillazione tra polo positivo e negativo. La morte non è fuori dalla vita, ma in essa, così come la pace non è altro che un equilibrio momentaneo della guerra. In questo senso, Coleridge si avvicina a una visione profondamente tragica, ma anche spirituale, della vita: ciò che siamo è il prodotto di una battaglia interiore che ci costituisce fin nelle fibre più intime.

Con questi versi del 1829, Samuel Taylor Coleridge ci consegna una visione poetica e filosofica dell’esistenza che travalica i confini del Romanticismo, avvicinandosi a una forma di mistica razionale e di esistenzialismo ante litteram. La luce che non possiamo vedere, l’io senza terra, i colori rubati all’oscurità, la coscienza illimitata, la guerra-pace che ci abita: sono immagini potenti, che interrogano il senso stesso dell’essere.

In Coleridge, poesia e pensiero si fondono in una riflessione radicale sulla natura della vita e della coscienza. E proprio in questa fusione, in questo linguaggio che cerca di dire l’indicibile, si manifesta la grandezza di uno dei più profondi poeti del suo tempo.

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