Ci sono versi brevi che, come lame sottili, incidono a fondo nella coscienza. Quelli di Rupi Kaur – poetessa contemporanea diventata simbolo della poesia breve e intensa – colpiscono per la loro capacità di condensare in poche parole esperienze emotive complesse e profonde. Tra i tanti frammenti della sua scrittura, questi versi emergono come una riflessione silenziosa e struggente sul disinganno affettivo:
“giorno per giorno mi accorgo che
tutto ciò che mi manca di te
non è mai esistito”
Rupi Kaur in “La persona di cui mi ero innamorata era un miraggio”
In questo componimento, l’esperienza della perdita si mescola con quella della consapevolezza: non solo il dolore dell’assenza, ma il riconoscimento che quell’assenza è vuota, perché ciò che si credeva di avere – ciò che manca – non è mai stato reale. Siamo davanti a una poesia che parla non solo della fine di un amore, ma della fine di un’illusione.
L’assenza come costruzione della memoria
Ogni distacco lascia un vuoto, e spesso quel vuoto viene riempito dal ricordo, dall’idealizzazione, dalla nostalgia. Ma Rupi Kaur ci invita a guardare più a fondo: e se ciò che ci manca non fosse altro che un’invenzione della mente, un miraggio dell’anima? Se il dolore per l’assenza non fosse legato a ciò che era, ma a ciò che avevamo solo immaginato?
In questi versi, si affaccia una forma particolare di malinconia: non più per la perdita di qualcosa di vero, ma per l’invenzione di qualcosa che non c’è mai stato. È un sentimento sottile, più simile al vuoto della disillusione che al lutto vero e proprio. Ed è, paradossalmente, più liberatorio. Perché non si tratta più di rimpiangere una felicità reale, ma di prendere coscienza dell’autoinganno.
L’amore e la costruzione del sé
L’esperienza amorosa, nella scrittura di Rupi Kaur, è spesso uno spazio di vulnerabilità ma anche di potenziale crescita. Qui il soggetto poetico prende le distanze da un amore che, a posteriori, si rivela inconsistente. Ma è proprio in quel processo di progressiva consapevolezza (“giorno per giorno”) che si compie un cammino di liberazione.
Scoprire che ciò che mancava non è mai esistito significa riconoscere che si era legati a un’immagine, a una proiezione, forse a un ideale costruito nella solitudine o nel bisogno. In questo senso, l’amore può diventare una forma di autoinganno emotivo, che ci spinge a vedere nell’altro qualità che desideriamo, ma che non ci sono mai state realmente.
Eppure, anche questa forma di illusione fa parte del nostro modo di amare. Non è tanto un errore, quanto una fase del sentire. Solo col tempo, con la distanza, si può guardare all’altro senza più i filtri deformanti dell’amore cieco. Il soggetto poetico lo scopre lentamente, giorno dopo giorno, in un processo che assomiglia a una lenta guarigione.
L’identità che si riscrive
Il disinganno non è solo una rivelazione sull’altro, ma anche su se stessi. Scoprire che ciò che si rimpiangeva non è mai esistito significa anche fare i conti con le proprie aspettative, con le proprie fragilità, con ciò che si era disposti a credere pur di non restare soli. È una presa di coscienza che mette in discussione la propria identità, ma che al tempo stesso rafforza. Perché il soggetto, ora, si conosce meglio: sa ciò che ha immaginato, ciò che ha proiettato, ciò che non vorrà più rifare.
La poesia allora non è solo un addio all’altro, ma anche un passo verso una versione più autentica di sé. Come spesso accade nella scrittura di Kaur, la parola poetica diventa uno strumento di autoterapia, di autoriflessione, di crescita.
La semplicità come forma di verità
La forza di questi versi risiede nella loro apparente semplicità. Non c’è retorica, non ci sono immagini barocche: solo parole essenziali, lineari, dirette. Ma proprio questa semplicità spoglia e quasi infantile amplifica la profondità del significato. L’uso del minuscolo, tipico della scrittura di Rupi Kaur, contribuisce a questo effetto: non si grida il dolore, lo si sussurra. Non si mette in scena il dramma, si lascia emergere la consapevolezza con pudore e precisione.
In questo, la poesia di Rupi Kaur si inserisce nella tradizione della poesia confessionale, ma con una forma nuova, visivamente scarna e affettivamente accessibile. I suoi testi non chiedono uno sforzo interpretativo astratto, ma un’identificazione emotiva. Chiunque, leggendo questi versi, può dire: “Anch’io ho provato questo”.
In conclusione, questi versi ci parlano di una scoperta amara, ma anche liberatoria: il riconoscimento che il dolore che proviamo a volte non è per ciò che era, ma per ciò che avevamo creduto fosse. È un messaggio che invita a guardare dentro, a distinguere tra realtà e desiderio, tra amore e proiezione.
Ed è, come molte poesie di Rupi Kaur, una carezza e un colpo insieme. Una ferita, ma anche un punto di partenza. Una poesia che non consola, ma che guarisce.