Nel suo saggio L’orso bianco era nero, Roberto Vecchioni esplora il valore e la forza delle parole, scavando nel mito, nella letteratura e nella memoria collettiva per mostrare come le parole non siano solo strumenti di comunicazione, ma vere e proprie forze trasformative.
Tra le riflessioni più potenti del testo, spicca una citazione che affonda le radici nel mito classico, nel cuore tragico dell’opera di Sofocle: la figura di Edipo, ormai cieco e vagante, che nel bosco di Colono pronuncia una delle frasi più profonde e disarmanti di tutta la letteratura: «Non piangere figlia, c’è una sola parola che sconfigge tutti i mali e dolori del mondo, e questa parola è amore. Amore, ma attenzione, non il farlo o il sentirlo, proprio il dirlo, il pronunciarlo. È la parola in sé, la parola amore la chiave».
Ma la parola chiave che ritengo più bella, più alta, è quella che pronuncia Edipo mentre si avvia verso la sua fine: ve l’ho già raccontata altre volte per altri motivi. Siamo nel bosco di Colono, un demo, un paese, fuori Atene. Edipo sa che è il suo momento dopo una vita di sofferenze indicibili che nemmeno Giobbe. Una lama di luce scende dal cielo, una voce lo chiama. Antigone, la figlia, al suo fianco piange e si dispera. Edipo l’abbraccia e le sussurra:
“Non piangere figlia, c’è una sola parola che sconfigge tuttii mali e dolori del mondo, e questa parola è amore”.
Amore, ma attenzione, non il farlo o il sentirlo, proprio il dirlo, il pronunciarlo. È la parola in sé, la parola amore la chiave.
Alcesti, per questo amore, offrirà la sua vita per salvare il marito.
Menelao dirà:
Non si ama veramente se non si ama per sempre.
Ma non fidatevi di Euripide: Elena a Menelao aveva fatto passare dieci anni di corna.
Roberto Vecchioni e il suo immenso, eterno amore per le parole
Questa riflessione di Vecchioni è un concentrato di poesia, filosofia e antropologia. Non si limita a parlare del sentimento amoroso, ma suggerisce qualcosa di ancora più radicale: che la sola pronuncia della parola “amore” può avere un effetto salvifico, catartico, eterno. In un mondo che troppo spesso riduce le parole a strumenti funzionali o le svuota del loro significato, Vecchioni ci invita a riscoprire la sacralità della parola amore in quanto tale.
Edipo, eroe tragico per eccellenza, colui che ha sfidato il destino e ha pagato con la cecità e l’esilio, alla fine della sua esistenza ritrova un ultimo barlume di senso in una parola. Lì, nel buio del suo corpo e della sua mente, una lama di luce gli indica il passaggio: e prima di dissolversi nella morte, lascia alla figlia Antigone – e a noi tutti – la sua eredità più alta. Non una morale, non un comandamento, ma una parola: amore. Una parola che, pronunciata, racchiude in sé una forma di resistenza al dolore, di redenzione, di riconciliazione con il mondo.
Vecchioni insiste sul potere del pronunciare la parola. Non si tratta di sentirla dentro, né di esprimerla tramite gesti o atti concreti: la forza è nel suono, nella lingua che la pronuncia, nella vibrazione che produce. Questo ci riporta all’origine sacrale del linguaggio. Le antiche civiltà attribuivano alle parole un potere magico: nominare una cosa significava farla esistere. In questo senso, dire amore significa invocarlo, chiamarlo nel mondo, evocare la sua presenza e la sua potenza anche laddove non c’è.
La citazione prosegue con due esempi emblematici: Alcesti, nella tragedia di Euripide, che per amore del marito Admeto si offre di morire al suo posto, e Menelao, che afferma: “Non si ama veramente se non si ama per sempre.” L’amore, dunque, non è un’esperienza passeggera, ma una promessa di eternità, un atto assoluto e definitivo. Eppure, Vecchioni non manca di punteggiare questa riflessione con ironia: ci ricorda che Euripide stesso, tramite il mito di Elena, ci mostra quanto l’amore umano sia imperfetto, pieno di contraddizioni e tradimenti – “dieci anni di corna”, ironizza, riferendosi al comportamento della moglie di Menelao durante la guerra di Troia.
Questa nota dissacrante non è solo un tocco umoristico. È un modo per riconoscere che la vita reale è fatta di ambivalenze. Le parole più alte e sacre possono convivere con le bassezze, i tradimenti, le illusioni. Ma proprio in questa tensione tra ideale e realtà, tra il dire e il fare, risiede la verità profonda dell’essere umano. E Vecchioni sembra dirci: anche se la vita ci tradisce, anche se l’amore ci delude, non rinunciamo a pronunciare quella parola, perché ogni volta che la diciamo, riaffermiamo una possibilità, una speranza, una bellezza che resiste.
La bellezza salvifica delle parole
La parola amore, allora, è un atto di fede. È una dichiarazione di umanità in un mondo spesso disumano. È la voce di Edipo che, pur cieco e distrutto, sa ancora vedere ciò che conta davvero. È la voce di ogni essere umano che, nella sofferenza, trova rifugio nel senso che le parole possono restituire. Ed è anche un invito, rivolto a noi, a non aver paura di usare questa parola, a non banalizzarla, ma a pronunciarla con consapevolezza, sapendo che in quel suono si cela qualcosa di sacro.
In un’epoca in cui le parole sembrano perdere di peso, in cui il linguaggio è spesso ridotto a slogan o a grida, amore resta, per Vecchioni, una parola-totem, una parola-faro. Edipo, Antigone, Alcesti, Menelao: tutti ci parlano da lontano, ma attraverso le loro storie, è la nostra stessa voce che può rinascere.
Diciamola, allora, questa parola. Non perché sia facile. Ma perché è necessaria.