Sei qui: Home » Frasi » I versi di Patrizia Valduga sulla terra da salvaguardare

I versi di Patrizia Valduga sulla terra da salvaguardare

Leggiamo assieme questi amari versi di Patrizia Valduga in cui viene descritta la tragica distruzione che l'uomo fa della terra e dunque di sé stesso.

Con questi versi tratti da Prima antologia, Patrizia Valduga compone un’elegia aspra, un grido di dolore che attraversa il tempo e si fa denuncia. La poetessa, celebre per la sua lingua che mescola classico e contemporaneo, sensualità e invettiva, affronta qui uno dei temi più urgenti e trasversali del nostro tempo: la devastazione ambientale. La sua poesia, densa e potente, non si limita però a una semplice denuncia ecologista: è un’analisi spietata della civiltà moderna, del suo impatto distruttivo sul pianeta e del paradosso che vede la “nostra bella e riverita specie” come carnefice della propria casa.

Non sentite il lamento della terra?
come un gigante gemito che sale…
Sono tre secoli che le fa guerra,
con fumi, tossici, pegola, pece,
con mercato di merce funerale,
la nostra bella e riverita specie.

Patrizia Valduga e “la nostra bella e riverita specie”

Il verso iniziale è un interrogativo che accusa: Non sentite il lamento della terra? Patrizia Valduga interpella direttamente i lettori, accusandoli, o almeno scuotendoli, per la loro sordità. Il “lamento della terra” diventa subito immagine sonora: come un gigante gemito che sale… Qui la poesia prende corpo in una sinestesia travolgente. La terra, personificata, geme come un gigante ferito, e quel gemito non è silenzioso, non è sussurrato: sale, si alza, riempie l’aria, eppure sembra che nessuno voglia (o sappia) udirlo.

È importante notare che Patrizia Valduga non descrive semplicemente un paesaggio ferito, ma rende la natura protagonista attiva, viva, sofferente. La terra non è una vittima muta, è una creatura viva che patisce. E tuttavia, quel dolore viene ignorato dalla “nostra specie”, che continua la sua opera di distruzione come se nulla fosse.

“Sono tre secoli che le fa guerra” — con questa strofa, la poetessa introduce un’idea di lunga durata, uno sguardo storico. Non si tratta, dunque, di una catastrofe recente o accidentale, ma di un processo continuo, sistematico, che ha radici profonde. Il riferimento temporale ci porta all’età moderna, alla rivoluzione industriale e alla nascita del capitalismo moderno. Da quando l’umanità ha iniziato a utilizzare in modo intensivo le risorse naturali, la terra ha cominciato a soffrire. È una guerra non dichiarata, ma incessante: un conflitto a senso unico, in cui l’uomo attacca e la terra subisce.

La parola guerra è scelta con precisione chirurgica: indica violenza, conquista, distruzione, e implica una volontà esplicita di dominio. L’uomo non è un ospite della terra, né un suo custode, ma il suo nemico.

Il quarto verso snocciola l’elenco delle armi con cui questa guerra viene combattuta: fumi, tossici, pegola, pece. Sono tutti elementi che evocano inquinamento, petrolio, catrame, sostanze velenose. Qui la poesia si fa visiva e olfattiva: si sente l’odore acre, si vede la coltre nera che avvolge il cielo e le acque. In poche parole, Valduga dipinge la modernità industriale come un inferno chimico, un paesaggio tossico che corrode la terra e intossica gli esseri viventi.

Questa strofa è un’accusa non tanto vaga quanto precisa: la poetessa inchioda le responsabilità dell’uomo contemporaneo che ha anteposto la produzione alla sopravvivenza, il profitto alla cura del pianeta.

“Mercato di merce funerale”: il capitalismo come necrologio del mondo

La penultima riga introduce un’espressione folgorante: mercato di merce funerale. L’economia globale, nella visione di Patrizia Valduga, è un mercato che commercia morte. Non più solo sfruttamento, ma commercio funebre: ogni oggetto prodotto, ogni passo del progresso, sembra portare con sé una tacca sulla bara del pianeta. La parola “funerale” non è solo metaforica: è una diagnosi. L’intero sistema è orientato alla distruzione sistematica, e ciò che viene scambiato, consumato, prodotto, ha il sapore della fine.

In questo contesto, l’uomo non è solo il colpevole, ma anche l’artigiano della propria rovina: nel tentativo di dominare il mondo, ha costruito un’economia che si alimenta della morte di ciò che lo sostiene.

Il colpo finale arriva con un amaro rovesciamento: la nostra bella e riverita specie. Qui Valduga impiega un’ironia tagliente, spietata. La specie umana, che si considera superiore, razionale, illuminata, è in realtà responsabile di una guerra suicida. È “bella” solo nei suoi miti autocelebrativi, “riverita” solo da sé stessa. L’auto-glorificazione della specie si rivela essere pura vanità: dietro la maschera del progresso si cela la devastazione.

Una poesia civile che è anche profezia

I versi di Patrizia Valduga non sono semplicemente lirici o contemplativi: sono un atto politico, una poesia civile che denuncia e accusa. Ma al tempo stesso sono anche una profezia, nel senso biblico del termine: non predizione, ma voce che svela la verità nascosta, che richiama alla responsabilità e alla conversione.

La forza di questa poesia sta nella sua capacità di dire molto in pochi versi, di trasformare l’astrazione del disastro ecologico in immagini potenti e concrete. Valduga non si limita a parlare dell’ambiente: parla dell’uomo, del suo ego, del suo rapporto malato con il potere e la materia.

Alla fine, la domanda che apre la poesia resta in sospeso e risuona come un monito: Non sentite il lamento della terra? Il problema non è che la terra non parli, ma che noi non vogliamo ascoltare. Patrizia Valduga ci costringe a confrontarci con questa sordità e ci invita, attraverso la bellezza dura dei suoi versi, a recuperare l’ascolto, la consapevolezza e, forse, un gesto di riparazione.

© Riproduzione Riservata