Nei pochi versi di Patrizia Cavalli (Poesie 1974 – 1992) dedicati al Natale si concentra una visione intensa, ambigua e profondamente umana di una ricorrenza che, più di ogni altra, porta con sé significati stratificati e spesso contraddittori. «Natale. La festa della luce. / Si ricomincia insomma. / Una paura selvatica»: già in questo incipit, apparentemente semplice, Cavalli rovescia ogni retorica rassicurante. Il Natale non è solo celebrazione, ma ritorno, esposizione, riapertura di una ferita. È luce, sì, ma una luce che non cancella l’ombra, anzi la rende più visibile.
Natale. La festa della luce.
Si ricomincia insomma.
Una paura selvatica.
Cosí si fa casetta
e ci si attruppa caldi
e gonfi, stremati.
Patrizia Cavalli e l’aria natalizia
Il primo verso è netto, quasi nominale: «Natale. La festa della luce.» Il punto fermo dopo “Natale” isola la parola, la rende oggetto di contemplazione e insieme di sospensione. Patrizia Cavalli nomina la festa senza commentarla subito, poi ne fornisce una definizione tradizionale, quasi canonica: la luce. È la luce del solstizio d’inverno, la luce cristiana della nascita, la luce delle case addobbate, delle vetrine, delle candele. Ma questa definizione, così apparentemente pacifica, è subito incrinata dal verso successivo: «Si ricomincia insomma.»
Quel “insomma” è decisivo. È una parola colloquiale, disincantata, che riduce la solennità dell’evento a un gesto ripetitivo, quasi stanco. Natale non è un miracolo unico, ma qualcosa che ritorna, che costringe a ripartire da capo. Si ricomincia: con i riti, con le attese, con le relazioni, con le emozioni che si credevano archiviate. In Cavalli, la ciclicità non è mai innocua: il ritorno implica fatica, esposizione, vulnerabilità.
Ed ecco infatti il verso successivo: «Una paura selvatica.» Qui la poesia cambia registro emotivo. La luce del Natale non genera solo gioia, ma anche paura. Una paura istintiva, primordiale, non addomesticata: selvatica. È una parola forte, che richiama ciò che non è controllabile, ciò che appartiene al fondo dell’essere umano. Il Natale, con il suo carico di intimità, di incontri forzati, di bilanci interiori, risveglia una paura antica: quella di esporsi, di sentire troppo, di non reggere il confronto con ciò che manca.
Questa paura non viene spiegata né analizzata: Cavalli la nomina e basta, come se fosse evidente. Ed è proprio in questa evidenza che sta la sua forza poetica. La poesia non giustifica, non consola, non moralizza. Registra uno stato emotivo nudo, che molti riconoscono ma pochi ammettono: il disagio che accompagna le feste, la tensione sotto la superficie luminosa.
La risposta a questa paura è descritta nei versi successivi: «Cosí si fa casetta / e ci si attruppa caldi / e gonfi, stremati». Il gesto umano che segue la paura è quello del riparo. Fare casetta è un’espressione infantile, domestica, tenera. Richiama l’idea di costruire un rifugio provvisorio contro il freddo, contro il buio, contro il mondo esterno. Non è una casa solida e definitiva, ma una casetta: qualcosa di piccolo, forse fragile, ma sufficiente per proteggersi.
Il verbo “attrupparsi” introduce invece una dimensione collettiva, quasi animalesca. Non ci si riunisce con eleganza o armonia, ma ci si accalca, ci si stringe, si cerca calore reciproco. È un’immagine fisica, corporea, che restituisce l’idea di corpi che si avvicinano per necessità più che per scelta. Il calore non è solo affettivo, ma biologico: serve a sopravvivere all’inverno, reale e simbolico.
Gli aggettivi finali — “caldi / e gonfi, stremati” — chiudono la poesia con un’immagine potentemente ambivalente. Caldi: protetti, al sicuro. Gonfi: forse sazi, forse appesantiti, forse carichi di emozioni trattenute. Stremati: esausti. Il Natale, in questa visione, non rigenera completamente; piuttosto consuma, affatica, lascia senza forze. È un momento di intensità che svuota, più che riempire.
Oltre le convenzioni
Patrizia Cavalli costruisce così una poesia che smonta la retorica natalizia senza distruggerla. La luce resta, ma non è trionfale; il calore c’è, ma è una risposta alla paura; la comunità esiste, ma nasce da un bisogno primario di protezione. Non c’è cinismo, ma lucidità. Non c’è celebrazione, ma consapevolezza.
In questi versi si riconosce una delle cifre più profonde della poetica di Cavalli: la capacità di dire l’intimità senza abbellirla, di nominare le emozioni nella loro forma più scomoda e vera. Il Natale diventa allora uno specchio dell’esperienza umana: desiderio di luce e timore dell’ombra, bisogno di legami e fatica del contatto, ripetizione dei riti e stanchezza del vivere.
In conclusione, “Natale. La festa della luce” non è una poesia sul Natale come evento religioso o sociale, ma sul Natale come momento emotivo critico, in cui l’essere umano si ritrova esposto e cerca riparo. È una poesia breve, ma densissima, che restituisce alla festa la sua verità più profonda: non quella della felicità obbligatoria, ma quella di una fragile, necessaria, umanissima ricerca di calore nel buio.