I versi di Osip Mandelštam tra tristezza e libertà

4 Luglio 2025

Leggiamo assieme questi versi di Osip Mandelštam in cui il poeta contempla la volta celeste e, tra mille battaglie soppesa tristezza e libertà.

I versi di Osip Mandelštam tra tristezza e libertà

I versi di Osip Mandelštam scritti nel 1908 appartengono a un momento giovanile della sua produzione poetica, ma già rivelano alcuni dei tratti distintivi della sua opera futura: il simbolismo profondo, il senso del destino, la tensione tra libertà e necessità, e la compresenza di uno sguardo interiore e cosmico.

«Mia tristezza fatidica, presaga,
mia quieta, silenziosa libertà
e tu, sempre ridente, là, cristallo
della volta celeste inanimata!»

Osip Mandelštam e la volta celeste

La poesia inizia con un richiamo alla “tristezza fatidica, presaga”, un sentimento che non è mero dolore, ma consapevolezza: la tristezza qui ha valore profetico, presagisce ciò che verrà, e in questo senso è “fatidica”, cioè segnata dal fato. Mandel’štam si muove già nel primo verso su un piano che è allo stesso tempo esistenziale e metafisico. Questa tristezza non è passeggera o personale, ma strutturale, quasi cosmica. È la condizione dell’uomo che sente il peso della storia e del tempo, che intuisce i futuri pericoli – un tema che risuonerà tragicamente nella vita stessa del poeta, che morirà nel gulag sovietico nel 1938.

La seconda linea introduce un ossimoro potente: “mia quieta, silenziosa libertà”. In questi versi giovanili Mandel’štam mostra già la sua sensibilità simbolista e la sua capacità di lavorare per paradossi: la libertà è silenziosa, forse perché interiore, non proclamata, non manifesta esteriormente. Essa è “quieta” non nel senso di inerte, ma nel senso di contenuta, quasi nascosta. Il poeta la sente, la riconosce, ma essa non ha bisogno di rumore o di gesti plateali: è un’energia segreta, raccolta. Potremmo leggere qui un’eco della concezione classica della libertà come padronanza di sé, come forza che agisce nell’ombra, nella riflessione solitaria, nella capacità di resistere senza urlare.

Il terzo e quarto verso aprono lo sguardo verso l’alto: «e tu, sempre ridente, là, cristallo / della volta celeste inanimata!» L’immagine è sublime: un “cristallo” che ride nella “volta celeste”. Il cielo, rappresentato come un’entità inanimata ma raggiante, cristallina, ridente, rappresenta un polo opposto rispetto alla tristezza fatidica iniziale. È come se Mandel’štam cercasse un equilibrio tra la consapevolezza del dolore e la bellezza dell’universo. La volta celeste, inanimata e lontana, non partecipa delle passioni umane, ma brilla come un cristallo: è immobile, eterna, apparentemente indifferente. Eppure, ride. Ma questo riso non è umano: è l’enigmatica serenità del cosmo.

Non a caso Mandel’štam richiama in questi versi immagini tipiche del simbolismo russo e del neoplatonismo, dove il mondo visibile è solo un riflesso del mondo ideale. Il cristallo è simbolo di purezza e di ordine, ma anche di freddezza e distanza. Ci troviamo quindi di fronte a una tensione costante: da un lato, l’animo umano con la sua tristezza e la sua libertà; dall’altro, un cielo perfetto ma inanimato, che ride con un sorriso non umano, non empatico, forse persino crudele nella sua imperturbabilità.

Questa tensione tra mondo interiore ed esteriore, tra destino e libertà, tra parola e silenzio, è una delle chiavi della poesia mandel’štamiana. In questi versi iniziali il poeta sembra già intuire il proprio ruolo: essere testimone di un’esistenza tragica ma non disperata, di un’umanità fragile ma dotata di uno sguardo che può cogliere la bellezza anche nel gelo della volta celeste.

Inoltre, va notato che la struttura della strofa è classica, quasi musicale. I versi sembrano scanditi da una cadenza armoniosa, che riecheggia la poesia lirica russa ma anche quella europea, da Rilke a Leopardi. Non è un caso che Mandel’štam, ammiratore della classicità e della cultura occidentale, cerchi nei suoi primi testi una forma che sia al contempo moderna e radicata in una tradizione elevata. Lo stesso lessico impiegato – “fatidica”, “presaga”, “inanimata” – contribuisce a creare un tono solenne, meditativo, come se ogni parola fosse scolpita in una materia nobile.

Dialogo con l'”io” lirico

Il dialogo implicito tra l’“io” lirico e la volta celeste è anche un riflesso di una dialettica che attraversa tutta la poesia di Mandel’štam: la necessità di parlare a qualcosa che non risponde, ma che è presente, maestoso, inafferrabile. Come se l’universo fosse testimone silenzioso della vita umana, ma non ne condividesse né la pena né la gloria.

Questi versi, scritti da un giovane poeta, annunciano dunque tutta la densità filosofica e spirituale della poesia matura di Osip Mandelštam. Nonostante la brevità, vi è un mondo intero racchiuso in quattro linee: la malinconia del destino, la forza silenziosa della libertà, l’enigma della bellezza cosmica, la tensione tra il soggetto e il cosmo.

E forse è proprio in questa tensione irrisolta che risiede la potenza della sua voce poetica: nella capacità di trattenere, in uno spazio esiguo, il grido e il silenzio, la profezia e la contemplazione, l’umano e l’inumano. Una poesia che, come il cristallo del cielo, non consola ma illumina.

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