Nella raccolta Cento poesie d’amore a Ladyhawke di Michele Mari, uno dei versi più evocativi e dolenti è quello in cui il poeta, con struggente consapevolezza, paragona sé stesso a uno sputnik che ha “esaurito i suoi messaggi per il pianeta Terra”. È un’immagine forte, perfettamente in linea con la poetica dell’autore, che nei suoi testi intreccia amore, cultura letteraria e simboli provenienti dalla scienza e dall’immaginario fantascientifico. Il brano citato è di straordinaria densità e permette molteplici livelli di lettura, soprattutto se si tiene conto del riferimento iniziale a Guido Cavalcanti, massimo esponente del Dolce Stil Novo, e alla concezione dell’amore come forza metafisica.
Se aveva ragione Cavalcanti
nel dir ch’ogni sospiro è un nostro spiritello
che tremulo e perplesso
si mette in viaggio
alla ricerca della persona amata
e giunto al suo cospetto sbigottisce
che resta ormai di me
sputnik
che ha esaurito i suoi messaggi
per il pianeta Terra?
Michele mari e Guido Cavalcanti
Il componimento si apre con una citazione diretta al pensiero cavalcantiano, in particolare all’idea che ogni sospiro sia un “nostro spiritello”, un piccolo spirito, una parte immateriale dell’anima che si stacca da noi e va in cerca dell’amata. In Cavalcanti, come nei suoi contemporanei, il sospiro è molto più che un segno di affanno o malinconia: è un elemento ontologico, una manifestazione fisica dell’interiorità amorosa che si fa gesto, viaggio, pellegrinaggio. Mari recupera questa concezione, ma la trasporta in un contesto completamente contemporaneo, sostituendo l’immagine spirituale del “sospiro” con quella, tecnologica e glaciale, dello sputnik, il primo satellite artificiale lanciato dall’Unione Sovietica nel 1957.
Qui il poeta si definisce “sputnik che ha esaurito i suoi messaggi per il pianeta Terra”, rovesciando la fiducia nel legame tra l’amato e l’amante: non c’è più comunicazione, non c’è più possibilità di trasmissione. Il satellite – metafora dell’anima o della voce dell’amore – ha terminato il suo compito. È una figura potente di isolamento, di silenzio cosmico. L’amore, in questo scenario, non è più un dialogo mistico tra anime affini, ma una trasmissione unidirezionale che ha smesso di ricevere risposta.
Il passaggio da Cavalcanti a Mari segna una traslazione temporale e culturale: se per il poeta duecentesco l’amore era motore ontologico e metafisico, oggi sembra rimanerne solo il simulacro, un messaggio lanciato nel vuoto. Il “sospiro” non è più uno spirito ma un frammento elettronico, un segnale debole e destinato a disperdersi nell’immensità dell’universo. L’immagine è profondamente malinconica: come il satellite, anche il poeta è in orbita, ma disconnesso, privo di interlocutore, ridotto a un gesto senza destinatario.
Mari, in questa poesia come nell’intera raccolta, esprime una concezione tragica dell’amore: l’amato è lontano, forse irraggiungibile, forse già perduto. La separazione è fisica ma anche spirituale, e ciò che ne resta è un relitto emozionale che continua a inviare segnali nella speranza di una ricezione che non avverrà. L’immagine del satellite è anche un chiaro rimando alla solitudine dell’amante, che vive nell’illusione di comunicare, pur sapendo che la propria voce si perde nel vuoto.
Interessante è anche il verbo scelto da Mari per descrivere i “sospiro-spiritelli”: essi “tremuli e perplessi / si mettono in viaggio”. Sono quindi incerti, esitanti, privi della determinazione e della fiducia che caratterizzava l’amor cortese. Eppure, il bisogno di raggiungere l’amata resta vivo, quasi ossessivo. L’“essere perplessi” introduce un elemento tipico dell’epoca moderna: il dubbio, l’inadeguatezza, l’incompletezza. Il viaggio amoroso non è un’ascesa mistica ma un tragitto disorientato, un itinerario senza mappa in uno spazio privo di punti di riferimento.
Quando poi lo spiritello giunge al cospetto dell’amata, si “sbigottisce”: anche questo è un tocco lirico e tragico. È come se, nel momento dell’incontro, l’amore fallisse la sua realizzazione. Forse l’amata è cambiata, o forse l’incontro svela l’impossibilità di corrispondenza tra le proiezioni amorose e la realtà. Lo “sbigottimento” è la reazione a questa delusione, a questa frattura insanabile tra ideale e reale.
Può rimanere priva di frecce la faretra d’Amore?
Infine, l’autodefinizione come “sputnik” chiude il componimento con una nota glaciale e definitiva. Non c’è nemmeno la speranza della reincarnazione, o del ritorno: il satellite è ormai un involucro senza funzione, una carcassa in orbita. In questo, Mari sembra voler affermare non solo la fine di un amore, ma anche la fine della funzione stessa dell’amore come motore spirituale. La poesia d’amore, qui, si fa autobiografia della disillusione, canto residuale di un sentimento che non ha più presa sul mondo.
In definitiva, questi versi racchiudono una tragedia silenziosa e universale, quella dell’amore come atto comunicativo interrotto. E nella commistione tra lirismo antico e immaginario tecnologico, Mari costruisce un ponte tra epoche e sensibilità, facendoci sentire il gelo dello spazio attorno a un cuore che ha ormai smesso di battere in sincronia con l’altro. Eppure, anche nella sua inutilità, quel satellite-poeta continua a orbitare: testimone di un desiderio che, sebbene muto, non ha mai smesso di esistere.