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I versi di Mario Luzi sulla primavera vicina all’estate

Leggiamo assieme i versi iniziali di una poesia di Mario Luzi che incarna la luce vitale e rivitalizzante della primavera che si approssima all'estate.

Questi versi di Mario Luzi – uno dei maggiori poeti italiani del Novecento – aprono uno scorcio sensoriale e filosofico sulla realtà, attraverso la lente simbolica della primavera. La stagione della rinascita viene colta da Luzi non come evento transitorio, localizzabile nel tempo o nello spazio, ma come principio immanente, energia diffusa, forza sottile che lavora nel profondo della materia e dello spirito.

Primavera onnipresente:
verde fiume, verde erba,
verde quasi turchese
dell’aria sulle ultime poggiate
a filo d’orizzonte,
strapazzato dal nembo,
dal sole rinverdito
e acceso nella sua offesa grazia:
Dov’è? – impossibile ubicarlo,
non ha sede, anima però
non gli vien meno – c’è
sottile un lavorio
nel mondo che diviene ed è.

Mario Luzi e la primavera

La “primavera onnipresente” del titolo è già una dichiarazione di poetica: non si tratta della semplice constatazione di un paesaggio primaverile, ma dell’epifania di un principio vitale che pervade ogni cosa. È una primavera non tanto cronologica, quanto ontologica: una dimensione dell’essere, un moto interno al reale.

I primi versi sono un’esplosione cromatica, un inno visivo alla presenza del verde. “Verde fiume, verde erba” è una ripetizione che sottolinea la pervasività di questa tonalità, simbolo per eccellenza della vita che germoglia, della rinascita, della giovinezza. A questa enumerazione si aggiunge un’immagine delicata ma profondamente sinestetica: “verde quasi turchese / dell’aria sulle ultime poggiate”. L’aria, normalmente invisibile, viene colorata, resa tangibile, quasi pittorica.

Luzi ha spesso dimostrato una sensibilità pittorica nelle sue poesie: le sue immagini evocano non solo la vista ma anche il tatto e l’udito. Il paesaggio diventa esperienza totale, attraversato da forze che si manifestano attraverso colori e luce. Il turchese dell’aria diventa una soglia fra il visibile e l’invisibile, come se la realtà stessa stesse per rivelarsi al di là della sua superficie sensibile.

Le “ultime poggiate a filo d’orizzonte” sono il punto dove lo sguardo si perde, dove finisce la terra e comincia il cielo. Qui il paesaggio è “strapazzato dal nembo”, cioè dal temporale, ma anche “dal sole rinverdito”. Questa contrapposizione di elementi — il nembo oscuro e il sole acceso — è fondamentale per comprendere il dinamismo della realtà che Luzi intende esprimere. Non esiste rinascita senza conflitto, non c’è luce senza ombra, né vita senza metamorfosi.

Il sole stesso è “rinverdito”, come se la sua luce fosse anch’essa parte della primavera, rinnovata da un’energia che la rende ancora più intensa, “acceso nella sua offesa grazia”. Quest’ultima espressione è straordinaria: la grazia è normalmente associata a qualcosa di dolce, ma qui è “offesa”, come se fosse stata ferita, violata, e proprio per questo più viva, più vera. La bellezza, nella visione luziana, non è mai pura o immobile, ma sempre attraversata da tensioni, da contraddizioni che la rendono reale.

L’impossibilità di “ubicarla”, la luce

A questo punto, il poeta si interroga: “Dov’è?” È la domanda centrale della seconda parte della poesia. Questa forza primaverile, questa onnipresenza vitale che ha descritto con tanta precisione sensoriale, è però sfuggente. “Impossibile ubicarlo” — ovvero, impossibile attribuirle un luogo preciso. Non ha sede, non si può localizzare, eppure “anima però / non gli vien meno”.

Il soggetto implicito è ancora quella primavera che non è un fenomeno naturale passeggero, ma un’essenza. È uno “spirito del mondo”, una corrente che muove ogni cosa, anche se non può essere definita o fissata in una forma. È, in altre parole, una metafora dell’essere stesso: ciò che anima il divenire, ciò che conferisce senso alla mutevolezza del mondo.

Il finale della poesia è forse il suo momento più filosofico. Luzi scrive che c’è “sottile un lavorio / nel mondo che diviene ed è”. Questo lavorio — una parola che richiama il gesto artigianale, paziente, incessante — non è percepibile a occhio nudo, ma è costante. È l’energia della trasformazione, quella che porta il seme a fiorire, il cielo a mutare, il pensiero a formarsi.

“Diviene ed è”: Luzi riprende qui una delle più grandi tensioni della metafisica occidentale, quella tra essere e divenire. Nella filosofia classica, da Parmenide a Platone, l’essere è ciò che resta, il divenire ciò che cambia. Ma per Luzi — e per la modernità — le due cose non si escludono: l’essere non è qualcosa di immobile, ma si manifesta proprio nel mutamento. L’eterno è dentro il transitorio. Il tempo, lungi dall’essere negazione dell’essere, ne è il luogo più autentico.

In questi versi, Mario Luzi ci offre una delle sue più alte meditazioni sulla natura e sull’esistenza. La primavera non è solo una stagione, ma una presenza continua, una forza creatrice che attraversa il mondo e l’anima. Il poeta ne coglie i segni attraverso la sinestesia della luce e del colore, ma riconosce anche la sua inafferrabilità.

La poesia si fa così strumento di percezione sottile: non descrive semplicemente, ma rivela. Mostra che il reale non è solo ciò che si vede, ma anche ciò che si trasforma, ciò che lavora in profondità. La primavera di Luzi è l’essenza stessa della vita: impalpabile, ma inarrestabile. Ed è proprio in questo “lavorio” del mondo che si manifesta la verità più alta della poesia — e dell’esistenza.

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