In questa frase tratta dal monumentale romanzo Alla ricerca del tempo perduto, Marcel Proust coglie con sconcertante lucidità uno dei nuclei più misteriosi e affascinanti dell’esperienza amorosa: l’illusione — o forse la speranza — che l’amore possa farci entrare in una dimensione altrimenti inaccessibile, un mondo altro incarnato nell’essere amato. Non si tratta solo di un’attrazione per la bellezza, il carattere o la compagnia dell’altro: l’amore, per nascere davvero, ha bisogno che ci convinciamo che l’altro custodisca un segreto, una porzione di esistenza che ci è preclusa, ma che — grazie all’amore — potremo varcare.
“Fra tutte le cose che l’amore esige per nascere, quella a cui tiene di più, e che gli fa trascurare tutto il resto, è la nostra convinzione che una persona partecipi a una vita sconosciuta in cui il suo amore ci farà penetrare.”
Marcel Proust e un’idea sull’amore
L’idea che l’amore sia un viaggio verso l’ignoto è centrale nella visione proustiana. La persona amata non è mai solo se stessa, non è mai interamente visibile o comprensibile. È come un continente nascosto, una sorgente remota da cui immaginiamo sgorghi un’altra forma di vita. L’amore, allora, non nasce dalla semplice conoscenza dell’altro, ma dall’intuizione di ciò che ci sfugge in lui.
In questo senso, Proust capovolge l’idea comune dell’amore come unione, comprensione o empatia perfetta: l’amore non nasce dalla conoscenza, ma dall’ignoranza. È proprio perché sentiamo che l’altro vive in una “vita sconosciuta” — diversa dalla nostra, misteriosa, forse più intensa — che ci sentiamo attratti. Desideriamo l’altro non per ciò che sappiamo di lui, ma per ciò che ignoriamo e speriamo di scoprire.
La dimensione narrativa del desiderio
Proust — narratore del tempo e dei suoi inganni — intuisce che l’amore ha una profonda radice narrativa. Non amiamo solo una persona: amiamo la storia che immaginiamo di poter vivere con lei, le trasformazioni interiori che pensiamo di sperimentare, il mondo che essa dischiuderà davanti a noi. Il soggetto amato diventa allora una sorta di portale simbolico: non è solo un corpo, un volto, un carattere, ma un segno.
Questa struttura narrativa si riflette nei molteplici amori descritti nella Recherche, da Swann a Odette, fino al narratore stesso con Albertine: tutti questi amori nascono da un’impressione, da un dettaglio, da una scintilla immaginativa, più che da un’autentica conoscenza dell’altro. L’amore proustiano è un racconto che ci si costruisce nella mente, un mito personale costruito sul fondamento di un’assenza o di una parziale opacità.
La speranza di una metamorfosi
Penetrare nella “vita sconosciuta” dell’altro non significa solo accedervi come visitatori. Implica un desiderio di cambiamento, di metamorfosi personale. L’amore promette (o illude) che, entrando in quella dimensione nuova, saremo diversi: più vivi, più profondi, forse più felici. Così, l’essere amato diventa uno specchio deformante, ma anche una soglia trasformativa. Attraverso lui o lei, speriamo di abbandonare la monotonia del nostro io quotidiano per diventare altro.
Eppure, come sa bene Proust, questa promessa è quasi sempre illusoria. L’altro, nella sua realtà concreta, raramente coincide con l’immagine mitica che abbiamo costruito. Il dramma dell’amore — nella Recherche — non è solo la gelosia, ma anche la delusione: quando il mondo che credevamo di penetrare si rivela ordinario, o addirittura banale. E tuttavia, è proprio questo meccanismo illusorio — questa continua tensione tra immaginazione e realtà — a definire l’amore come esperienza letteraria ed esistenziale.
Il ruolo dell’ignoto
Proust, con la sua proverbiale acutezza psicologica, capisce che l’ignoto è essenziale al desiderio. Ciò che conosciamo completamente tende a perderci fascino; ciò che resta parzialmente nascosto continua ad attrarci. La vita sconosciuta di cui parla Proust non è solo una metafora: è l’essenza stessa del legame amoroso. Quando l’altro diventa prevedibile, decifrabile, trasparente, l’amore si logora. Ma se l’altro resta parzialmente enigmatico, allora l’amore si rinnova come una ricerca senza fine.
In questo quadro, l’amore si trasforma in una forma di conoscenza mai del tutto compiuta, un cammino che non raggiunge mai la meta. E non si tratta di un difetto, bensì della sua stessa natura: amare significa anche accettare che l’altro ci sfugga, che non potremo mai possederlo completamente, ma solo avvicinarci a lui in modo asintotico.
La citazione di Proust ci restituisce un’immagine dell’amore come tensione, come desiderio di penetrare un universo che ci è estraneo ma irresistibile. È una visione affascinante, ma anche inquietante, perché ci ricorda che amare significa anche idealizzare, proiettare, creare illusioni.
Eppure, proprio in queste illusioni, in questo desiderio di entrare in un’altra vita, si trova forse la scintilla più umana e poetica dell’amore. Non cerchiamo l’amore per ciò che conosciamo, ma per ciò che ci manca. E, in fondo, ogni vero amore è sempre anche una forma di scoperta — del mondo, dell’altro, e di noi stessi.