Nella citazione dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Luigi Pirandello, emerge uno dei nuclei tematici più potenti della poetica pirandelliana: la frattura insanabile tra l’essere e l’apparire, tra l’identità intima e la maschera sociale. La voce che si esprime — un personaggio secondario ma emblematico — mette a nudo l’insopportabile artificio del mondo, un “mondaccio” dove ogni relazione tra individui è filtrata da una recita continua, una finzione inevitabile che soffoca la spontaneità e la verità del sentire umano. Il tono concitato, ripetitivo, quasi affannato, è già una dichiarazione stilistica di questo disagio: il personaggio sembra parlare mentre si osserva, mentre si riconosce egli stesso parte del medesimo ingranaggio che denuncia.
Che mondaccio, signor Gubbio, che mondaccio è questo! che schifo! Ma pajono tutti… che so! Ma perché si dev’essere così? Mascherati! Mascherati! Mascherati! Me lo dica lei! Perché, appena insieme, l’uno di fronte all’altro, diventiamo tutti tanti pagliacci? Scusi, no, anch’io, anch’io; mi ci metto anch’io; tutti! Mascherati! Questo, un’aria così; quello, un’aria cosà… E dentro siamo diversi! Abbiamo il cuore, dentro, come… come un bambino rincantucciato, offeso, che piange e si vergogna!
Luigi Pirandello e le maschere
Il grido “Mascherati! Mascherati! Mascherati!” è molto più di un semplice sfogo. È la perfetta sintesi della visione tragicamente ironica che Pirandello ha dell’esistenza sociale. L’uomo — secondo l’autore — indossa maschere non per capriccio, ma per necessità: la società impone forme, ruoli, aspettative che si solidificano in “copioni” da interpretare. Ogni individuo, nel momento in cui si presenta agli altri, è costretto a rappresentare un personaggio. L’identità diventa quindi fluida, frammentata, e soprattutto soffocata da ciò che Pirandello definisce le “forme”, cioè le costruzioni sociali e psicologiche che imprigionano l’essere autentico.
Il personaggio che parla riconosce questa condizione universale e vi si include senza esitazione: “anch’io, anch’io; mi ci metto anch’io; tutti!”. Non c’è eccezione, non c’è figura che possa sottrarsi al meccanismo. Anzi, l’atto stesso di denunciare la finzione sembra, paradossalmente, un atto teatrale: l’umanità è condannata alla maschera non solo quando recita un ruolo sociale, ma perfino nel momento in cui tenta di smascherarsi. È questo uno dei paradossi pirandelliani più profondi: la consapevolezza della maschera non libera, ma intrappola ulteriormente, perché rivela l’impossibilità di essere genuinamente sé stessi quando si è esposti allo sguardo altrui.
L’idea che “appena insieme, l’uno di fronte all’altro, diventiamo tutti tanti pagliacci” si collega alla nozione moderna dell’identità come performance. Luigi Pirandello anticipa concetti che la sociologia e la psicologia del Novecento avrebbero poi sviluppato: il sé è un atto, una rappresentazione sociale che risponde a contesti diversi. Ciò che appare come superficialità o ipocrisia è, in realtà, una dinamica strutturale della convivenza umana. L’individuo percepisce questa costrizione come un peso, come una distanza tra il proprio sentire e la propria immagine pubblica. Ne nasce un senso di alienazione, un malessere che attraversa tutta l’opera pirandelliana.
Dinanzi a questo scenario, la parte finale della citazione rappresenta un improvviso, struggente abbassamento di tono: “E dentro siamo diversi! Abbiamo il cuore, dentro, come… come un bambino rincantucciato, offeso, che piange e si vergogna!”. Questo “bambino” interiore è l’immagine più dolente dell’io autentico, ferito e vulnerabile, costretto a nascondersi nelle profondità della coscienza. Qui Pirandello mostra la sua rara capacità di coniugare lucidità analitica e compassione umana. Sotto la maschera non c’è un volto adulto, sicuro, determinato: c’è un bambino spaventato, timido, spesso incapace di affrontare l’esposizione sociale senza provare vergogna.
Questa immagine del bambino rappresenta la parte più autentica di noi, quella capace di emozioni pure, non filtrate. Ma il mondo — il “mondaccio” — non permette che tale autenticità si manifesti senza conseguenze. La vergogna non è solo un sentimento personale: è il riflesso della pressione sociale che induce ciascuno a celare la propria fragilità. Luigi Pirandello denuncia una società che non accoglie la debolezza, che pretende coerenza, dignità, compostezza, mentre gli esseri umani, nella loro essenza, sono tutt’altro: mutevoli, incerti, feribili.
Quaderni di Serafino Gubbio operatore
I Quaderni di Serafino Gubbio operatore si svolgono in un contesto peculiare: quello del cinema nascente. Serafino Gubbio, operatore alla macchina da presa, osserva il mondo come se lo guardasse attraverso un obiettivo. Questa distanza “meccanica” amplifica lo scollamento tra vita e rappresentazione. Nel romanzo, gli uomini appaiono come figure in movimento, come attori inconsapevoli di un film senza regia. Anche qui, la maschera domina: la macchina da presa cattura gesti, pose, apparenze, ma non il “bambino offeso” che si nasconde dentro ciascun personaggio.
La citazione, dunque, non è solo un commento amaro sul comportamento umano: è una lente privilegiata sulla poetica dell’autore. Luigi Pirandello ci invita a riflettere sulla natura della nostra socialità, sulla difficoltà di essere autentici e sul dolore che deriva dall’essere costretti a interpretare ruoli che non ci appartengono. In un mondo in cui tutto è apparenza, in cui anche la sincerità può diventare una posa, l’unica verità rimasta sembra essere la sofferenza silenziosa del nostro io più profondo.
Luigi Pirandello non offre soluzioni. Non indica una via di fuga dalla maschera. Ma nel riconoscimento della nostra fragilità — di quel bambino nascosto, vergognoso e ferito — c’è un barlume di umanità condivisa. Forse, suggerisce l’autore, l’unico modo per sopportare il “mondaccio” è accettare che tutti portano una maschera, e che tutti, sotto quella maschera, hanno un cuore che piange.