Sei qui: Home » Frasi » I versi di Lucano contro la prepotenza e l’esagerazione

I versi di Lucano contro la prepotenza e l’esagerazione

In se magna ruunt. Leggiamo gli emblematici versi appartenenti al primo libro della Pharsalia, di Lucano, in cui il poeta arringa contro l'ingordigia.

Nel primo libro della Pharsalia — poema epico di Marco Anneo Lucano, poeta latino vissuto nel I secolo d.C. — troviamo una riflessione tagliente e disillusa sulla rovina di Roma, sul suo smisurato potere e sulla degenerazione politica che seguì la fine della Repubblica. I versi:

in se magna ruunt: laetis hunc numina rebus
crescendi posuere modum. nec gentibus ullis
commodat in populum terrae pelagique potentem
inuidiam Fortuna suam. tu causa malorum
facta tribus dominis communis, Roma, nec umquam
in turbam missi feralia foedera regni.

«Le cose grandi precipitano su sé stesse. Gli dei hanno posto
questo limite al crescere della prosperità. Né ad alcuna gente
la Fortuna offre la sua invidia contro un popolo potente
per terra e per mare; tu sei causa dei tuoi mali,
o Roma, resa comune a tre padroni, e patti feroci
di un dominio mai lasciato dal caos.»

costituiscono una denuncia aspra e profonda contro l’ambizione, l’ingordigia e la sete di potere che hanno condotto alla guerra civile e alla dissoluzione delle istituzioni repubblicane.

Lucano: In se magna ruunt: la grandezza crolla su sé stessa

«Le cose grandi precipitano su se stesse»: così inizia Lucano, evocando una legge morale e cosmica che governa il destino degli uomini e delle civiltà. Non è un nemico esterno a distruggere Roma, ma il suo stesso peso, la sua smisurata grandezza. Come una torre troppo alta che crolla per eccesso di altezza, Roma si condanna con il proprio stesso successo. Gli dei, secondo Lucano, hanno imposto un limite invisibile al crescere della prosperità: quando una civiltà lo supera, inizia la decadenza. Non è una punizione divina arbitraria, ma una legge inevitabile dell’esistenza storica e politica.

Lucano rifiuta l’idea di una Roma come portatrice di un destino provvidenziale o civilizzatore, così come celebrato da Virgilio nell’Eneide. Al contrario, egli rappresenta Roma come una potenza vorace, diventata padrona del mondo per terra e per mare, ma incapace di governare se stessa. La Fortuna, dice, non ha bisogno di inviare popoli nemici per minare un impero: la rovina arriva dall’interno, generata dalla stessa forza che l’ha reso potente.

Roma contro Roma: il tradimento della Repubblica

«Tu sei causa dei tuoi mali, o Roma»: questo verso è una delle più amare constatazioni dell’intero poema. La colpa non è degli dei, né dei barbari, né di sfortune imprevedibili: Roma si è inflitta da sola le proprie ferite. Lucano vede nella fine della Repubblica e nell’instaurazione del primo Triunvirato (formato da Cesare, Pompeo e Crasso) l’inizio della rovina. Invece di essere governata da un Senato rappresentativo, Roma viene «resa comune a tre padroni», ovvero divisa in quote di potere personale, trasformata in oggetto di spartizione tra ambizioni private.

La Repubblica romana, che per secoli aveva resistito grazie all’equilibrio tra diverse istituzioni — consolato, senato, tribuni della plebe — viene smembrata da un patto occulto, un “patto feroce” che sancisce la fine del bene pubblico (res publica) e inaugura l’era delle guerre civili. Il triumvirato segreto del 60 a.C., infatti, non è che il preludio del conflitto sanguinoso tra Cesare e Pompeo, culminato nella battaglia di Farsalo (48 a.C.) — evento che dà nome all’intera Pharsalia.

«Un dominio mai lasciato dal caos» è un’immagine fortissima: l’idea è che il potere conquistato con la forza, attraverso alleanze segrete e tradimenti, non può mai generare ordine o giustizia. È un potere precario, fondato sull’instabilità, sulla violenza e sulla sospensione di ogni norma. Lucano, stoico convinto e oppositore di Nerone (a cui dedica il poema in apertura, con un’ironia amara), vede in questi eventi non una crisi passeggera, ma l’inizio di un’epoca irreversibilmente corrotta.

Il caos non è solo lo stato iniziale del mondo, come nella mitologia greco-romana: in Lucano, diventa la condizione perenne del potere quando esso si emancipa da ogni principio morale e legale. Non a caso, il poeta esprime più volte l’idea che la guerra civile sia la vera nemesi di Roma: non la guerra contro un nemico esterno, ma la guerra di cittadini contro cittadini, fratelli contro fratelli, segna la decadenza ultima.

Quella di Lucano è una visione profondamente tragica, in cui la storia appare come un ciclo inarrestabile di ascesa e caduta, in cui ogni successo contiene già in sé il germe della catastrofe. A differenza di Virgilio, che costruisce una narrazione teleologica e ottimistica (la fondazione di Roma e l’impero augusteo come compimento del volere divino), Lucano non crede in alcun disegno provvidenziale. La storia è dominata dalla violenza, dall’ambizione, dall’orgoglio: forze cieche che travolgono uomini e popoli.

Eppure, nella sua denuncia, c’è anche una forma di lucidità politica. Lucano scrive in un tempo (sotto il principato di Nerone) in cui la libertà è stata completamente soppressa, e il passato repubblicano è ormai un ricordo idealizzato. Ma il suo poema è un atto di resistenza morale: nel rappresentare la rovina di Roma, egli invita il lettore a riflettere sul costo dell’ambizione sfrenata e sulla necessità di un ordine politico giusto.

I versi della Pharsalia qui citati sono un manifesto della delusione storica e della consapevolezza tragica. Lucano denuncia la rovina di Roma non come frutto di una casualità, ma come esito inevitabile di un’espansione cieca e di un potere diviso tra pochi ambiziosi. È un monito che supera la sua epoca, parlando anche al presente: ogni civiltà che dimentica i limiti, che si abbandona all’egoismo e che sacrifica il bene comune per l’interesse di pochi, è destinata a crollare su se stessa.

© Riproduzione Riservata