Questa affermazione, lapidaria e provocatoria, scaturisce dalla penna acuminata di Louis Ferdinand Céline, uno degli scrittori più controversi e incisivi del Novecento. Tratta da Voyage au bout de la nuit (1932), il suo romanzo più celebre e rivoluzionario, la citazione getta uno sguardo impietoso sulla condizione umana, ponendo al centro della riflessione un sentimento tanto universale quanto negato: la vanità.
“La vanità intelligente non esiste. È un istinto. Non c’è uomo che non sia prima di tutto vanitoso.”
Louis Ferdinand Céline, con il suo stile caustico, frammentato e colloquiale, scardina ogni illusione di nobiltà d’animo. In questa frase — “La vanità intelligente non esiste. È un istinto. Non c’è uomo che non sia prima di tutto vanitoso” — l’autore ci obbliga a guardare oltre le maschere della coscienza razionale, verso un fondo oscuro e istintivo dell’essere. Per Céline, la vanità non è un tratto secondario o culturale, ma la matrice primaria della personalità. Non si tratta di un difetto “gestibile” attraverso l’intelligenza o l’educazione, bensì di un istinto, una forza irrazionale che agisce a prescindere dal nostro volere.
Louis Ferdinand Celine e il suo amore verso l’umanità inesorabilmente tradito
Louis Ferdinand Céline equipara la vanità agli istinti fondamentali: come la fame, il desiderio sessuale o l’istinto di sopravvivenza. Non è qualcosa che si sceglie, ma qualcosa che ci governa. A differenza di altre passioni o inclinazioni, la vanità non si evolve con la cultura o l’esperienza. È sempre presente, sotto ogni gesto, ogni parola, ogni scelta, anche — e forse soprattutto — quando crediamo di agire in modo disinteressato o altruista. In questo senso, la vanità si fa inganno: la sua forza non sta nella sua evidenza, ma nella sua capacità di mimetizzarsi dietro i gesti più nobili.
Critica all’intelligenza e all’illusione dell’autenticità
Affermando che “la vanità intelligente non esiste”, Céline compie un atto di rottura con la tradizione illuminista e borghese, che da secoli riteneva l’intelligenza uno strumento per controllare gli istinti e purificare l’animo umano. Per lo scrittore francese, questa pretesa è un’illusione: l’intelligenza non redime, ma spesso serve la vanità. Più un individuo è intelligente, più riesce a mascherare il proprio ego dietro azioni apparentemente generose o spiritualmente elevate. È per questo che Céline insinua che la vanità “intelligente” sia in realtà la forma più insidiosa di vanità, perché travestita da saggezza o disinteresse.
Nel romanzo Viaggio al termine della notte, il protagonista Bardamu è un alter ego dello stesso Céline, e attraversa un’umanità disgregata dalla guerra, dal colonialismo, dall’industria e dall’alienazione moderna. In ogni situazione, Bardamu osserva il ripetersi della stessa dinamica: gli uomini si illudono di agire per ideali, ma in realtà cercano, consapevolmente o no, di nutrire il proprio ego. La vanità, dunque, è ciò che sopravvive anche quando tutto il resto — dignità, morale, solidarietà — viene spazzato via.
Una visione pessimistica, ma lucida
La forza della citazione di Céline sta nel suo radicalismo. Ciò che può sembrare cinico o nichilista è in realtà un invito a smascherare le illusioni. Se accettiamo che la vanità sia una componente ineliminabile dell’essere umano, possiamo forse iniziare a conoscerci per davvero. Lungi dall’essere un messaggio disperato, questa affermazione può essere interpretata come uno sprone a riconoscere e disinnescare i meccanismi interiori che ci muovono. Per Louis Ferdinand Céline, la vera intelligenza sta nel riconoscere la menzogna che raccontiamo a noi stessi. Non è un caso che l’autore intitoli il suo romanzo “Viaggio al termine della notte”: un percorso di discesa nella parte più oscura e vera dell’animo umano, lontano dalle luci artificiose della retorica morale.
La vanità nella società contemporanea
A quasi un secolo di distanza dalla pubblicazione del romanzo, la riflessione di Louis Ferdinand Céline risuona con rinnovata attualità. In un’epoca dominata dai social media, in cui l’immagine di sé è diventata un bene da curare e vendere, la vanità non è più un vizio da nascondere ma un valore da esibire. L’instaurarsi di una cultura dell’apparenza, in cui il riconoscimento pubblico vale più della sostanza, sembra confermare la diagnosi celineana: l’uomo è prima di tutto vanitoso, e costruisce il proprio senso di identità sullo sguardo degli altri.
Non solo: la presunta “intelligenza” della vanità moderna, che si veste di ironia, consapevolezza e sofisticazione estetica, non fa che confermare l’idea che non esista davvero una forma superiore o nobile della vanità. La vanità resta istintiva, primitiva, e, paradossalmente, tanto più potente quanto più viene dissimulata.
Con la sua feroce lucidità, Louis Ferdinand Céline ci consegna una verità scomoda ma necessaria: non esiste uomo immune dalla vanità. Essa non è una colpa da espiare, ma una condizione esistenziale da accettare. La sua affermazione ci obbliga a un esercizio di onestà: riconoscere ciò che ci muove, prima ancora delle nostre convinzioni, morali o ideologiche. In un mondo che predica autenticità ma premia la visibilità, ricordare le parole di Céline significa tenere accesa una luce — seppur notturna — sul cammino tortuoso della nostra coscienza.