La lingua italiana custodisce, nelle sue pieghe più remote, parole che sembrano provenire da un mondo distante, cariche di suggestioni e di immagini solenni. Una di queste è il verbo redimire, oggi pressoché caduto in disuso e confinato alla letteratura, ma capace di evocare un universo di significati e di tradizioni poetiche.
Derivato dal latino redimire, di etimo incerto, il verbo ha un significato preciso: incoronare, cingere. Il suo uso, però, non appartiene al linguaggio comune; è un termine che si ritrova quasi esclusivamente nella forma del participio passato redimito e nei tempi composti derivati da quest’ultimo. Nella lingua d’oggi, è una parola che vive soprattutto nei versi di grandi autori, da Dante a Carducci, da D’Annunzio ad altri poeti che hanno fatto del linguaggio un luogo di recupero della classicità.
Origini e sfumature semantiche nella lingua italiana letteraria
L’etimologia di redimire si lega a un’idea di ornamento e di onore. Nel latino classico, il verbo era usato per indicare il gesto di cingere il capo o un’altra parte del corpo con un elemento decorativo, spesso vegetale: una ghirlanda, una corona d’alloro, un nastro prezioso. Il prefisso re- non ha qui valore iterativo, ma intensivo: “cingere completamente, avvolgere in forma solenne”.
In questo senso, redimire porta con sé un’aura cerimoniale e sacrale. Non si tratta di un’azione comune, ma di un atto che ha valore simbolico: incoronare un poeta, celebrare un condottiero, rendere onore a una divinità o a una città.
L’uso letterario: dal Medioevo all’Ottocento
La rarità del termine nel linguaggio d’uso quotidiano è compensata dalla sua fortuna in ambito letterario. Gli autori lo hanno scelto non solo per il significato, ma anche per il suono e il prestigio che evoca.
Un esempio celebre si trova in Dante Alighieri, nel Paradiso (canto XI), dove leggiamo:
Di seconda corona redimita
fu per Onorio da l’Etterno Spiro
la santa voglia d’esto archimandrita.
Qui redimita descrive una “corona” spirituale, non fatta di alloro o metallo, ma di grazia divina: la seconda corona è simbolo di un ulteriore riconoscimento celeste. L’uso del verbo contribuisce a elevare il tono, rendendo la scena carica di solenità.
Nell’Ottocento, Giosuè Carducci riprende il termine nei suoi versi:
Redimito di fior purpurei April te vide su ’l colle emergere
dal solco di Romolo…, o Roma.
Qui la parola si lega all’immagine di Roma incoronata di fiori primaverili: un’immagine solenne e al tempo stesso vibrante di vita e di storia.
D’Annunzio, maestro nel recuperare e reinventare il lessico letterario, usa redimita in chiave simbolista:
O Verità redimita di quercia.
In questo caso, la corona non è fatta di alloro o fiori, ma di quercia, pianta sacra e simbolo di forza e integrità. La parola amplifica il senso sacrale della scena, innalzando la “Verità” a figura quasi divina.
Il fascino sonoro e simbolico
Oltre al significato, redimire possiede una musicalità particolare. La sequenza di suoni — la “r” iniziale che introduce un movimento, il dolce “di” centrale, la chiusura in “-ire” — contribuisce a creare un effetto armonico, ideale per la poesia. Non sorprende che gli autori lo abbiano preferito a sinonimi più comuni come “incoronare” o “cingere”, che pur essendo chiari, non possiedono lo stesso spessore evocativo.
L’uso del participio redimito aggiunge un ulteriore livello di raffinatezza: è una forma antica, con risonanze latine, che inserita in un verso richiama immediatamente atmosfere classiche.
Il valore simbolico della “corona”
Il concetto di “coronare” non è meramente ornamentale. Nella tradizione occidentale, la corona è simbolo di vittoria, di consacrazione e di appartenenza a una sfera elevata. Gli antichi romani incoronavano con l’alloro i poeti e con la corona d’oro i condottieri vittoriosi. Nel cristianesimo, la corona diventa anche emblema di santità e martirio.
Usare redimire o redimito in un testo significa attingere a questa rete di significati e sovrapporli all’immagine descritta. Una città può essere “redimita” di mura, una divinità “redimita” di stelle, una verità “redimita” di quercia: in ogni caso, l’atto di cingere indica una dignità particolare.
Perché oggi è scomparso dall’uso comune
Come molte parole di registro alto, redimire ha perso spazio nella lingua parlata per via della sua connotazione esclusivamente letteraria. In un contesto quotidiano, “incoronare” o “cingere” sono percepiti come più chiari e immediati. La sua sopravvivenza è affidata alla poesia, alla prosa d’arte e a testi che mirano a un tono solenne o arcaizzante.
Tuttavia, la perdita di questi termini comporta anche un impoverimento lessicale: redimire non è solo un sinonimo, ma un contenitore di immagini e valori culturali che le parole comuni non sempre riescono a trasmettere.
Redimire è un verbo che ci parla di cerimonie, di gesti solenni, di corone che non sono soltanto ornamenti ma simboli di onore e di appartenenza a una dimensione più alta. Usato quasi esclusivamente nella forma redimito, attraversa la letteratura italiana dal Medioevo al Novecento, portando con sé un’eco di latino e di classicità.
Oggi, riscoprirlo significa non solo recuperare una parola rara, ma anche riappropriarsi di una capacità di esprimere il solenne con precisione poetica. In un’epoca in cui il linguaggio tende alla semplificazione, redimire rimane come un gioiello antico: forse non adatto all’uso quotidiano, ma capace, nelle giuste mani, di dare al testo un’aura di nobiltà e di bellezza senza tempo.