Una frase di Laura Mancinelli su felicità e tristezza

8 Ottobre 2025

Leggiamo questa citazione di Laura Mancinelli che, sulla scorta di Seneca, ci ricorda l'importanza di conoscerci e conoscere le nostre emozioni.

Una frase di Laura Mancinelli su felicità e tristezza

La citazione di Laura Mancinelli, tratta dal romanzo Gli occhi dell’imperatore, è una riflessione breve ma profondamente incisiva sulla condizione umana:

«Nessuno è più triste dell’uomo che non sa essere né felice né triste.»

In poche parole, l’autrice racchiude una delle verità più sottili sull’esistenza: la vera infelicità non è data dalla sofferenza, ma dall’incapacità di provare qualcosa, dall’indifferenza emotiva che si insinua quando l’animo umano perde il contatto con il mondo dei sentimenti. Questa frase, nella sua apparente semplicità, si rivela come una meditazione filosofica e psicologica sul valore delle emozioni, sulla necessità di sentire — nel bene e nel male — per poter dire di essere veramente vivi.

Laura Mancinelli, emozioni e sentimenti

L’uomo che non sa essere né felice né triste è un uomo svuotato, in una condizione di sospensione, dove la vita non ha più né picchi né abissi, ma scorre piatta come un mare senza vento. Non soffre, ma neppure gioisce; non desidera, e dunque non vive pienamente. È un essere che ha smarrito la propria capacità di sentire, e con essa la propria umanità più profonda.

In questo senso, Mancinelli ci invita a riflettere sul pericolo della neutralità emotiva. In una società come quella contemporanea, che tende a evitare il dolore e a cercare una felicità costante e patinata, il rischio è proprio quello di spegnere ogni oscillazione interiore. Ma le emozioni, anche quelle più difficili, sono ciò che ci definisce. Essere tristi, arrabbiati, innamorati o commossi significa essere vivi, significa partecipare attivamente al flusso dell’esistenza.

Chi non sa essere né felice né triste, al contrario, si ritira dal mondo. Vive come un osservatore distaccato, prigioniero della propria apatia. E questa è, per Laura Mancinelli, la forma più autentica e devastante della tristezza: quella che nasce dal vuoto, non dalla perdita.

L’equilibrio impossibile: il desiderio di non sentire

La scrittrice piemontese, storica e medievalista di profonda sensibilità letteraria, costruisce la sua riflessione anche su un contrasto tipicamente umano: il desiderio di evitare la sofferenza e, allo stesso tempo, la necessità di attraversarla per poter gioire. L’uomo moderno spesso sogna una vita priva di turbamenti, una serenità che assomigli alla calma di uno stagno. Ma quella calma, dice Mancinelli, non è serenità: è immobilità, assenza di vita.

Il problema non è la tristezza, ma l’incapacità di sentirla. Non sapere essere tristi significa non avere più empatia, non riuscire più a percepire la propria fragilità e quella degli altri. È una forma di anestesia spirituale che cancella ogni profondità. Allo stesso modo, non sapere essere felici implica non saper riconoscere la bellezza, la gratitudine, la meraviglia.

In questa prospettiva, la frase di Mancinelli si può leggere come una critica a una civiltà che tende a reprimere le emozioni, a controllarle, a renderle misurabili e gestibili. Ma la vita, nella sua autenticità, è fatta di contrasti: non esiste gioia senza tristezza, né luce senza ombra. L’uomo che tenta di eliminare la tristezza, finisce per eliminare anche la possibilità della felicità.

La tristezza come forma di conoscenza

Mancinelli, come molti autori della grande tradizione letteraria europea, riconosce nella tristezza non un difetto, ma una forma di consapevolezza. La capacità di essere tristi è ciò che distingue chi vive superficialmente da chi vive in profondità. Essere tristi significa sapere che il tempo passa, che tutto è fragile, che ogni istante di felicità è destinato a finire. Ma è proprio questa consapevolezza che dà valore a ciò che si vive.

La citazione, dunque, non è un invito al pessimismo, ma a una pienezza di sentire. L’uomo che sa essere triste è anche quello che, proprio grazie a questa capacità, può essere davvero felice. Perché conosce il prezzo delle cose, ne riconosce la transitorietà. Al contrario, chi non prova nulla rimane sospeso in una dimensione senza storia, senza ricordi, senza desideri.

Questo tema risuona fortemente in tutta la letteratura del Novecento: basti pensare all’“uomo senza qualità” di Robert Musil, o ai personaggi di Albert Camus, che vivono nell’assurdo di un mondo senza senso. Ma Mancinelli lo declina con una dolcezza disarmante, con la malinconia tipica della sua scrittura, dove la riflessione filosofica si intreccia con una profonda pietà per la condizione umana.

In fondo, la frase di Mancinelli è un elogio del coraggio emotivo. Essere capaci di sentire — anche quando il sentimento è doloroso — richiede forza, vulnerabilità, apertura. È molto più facile indossare una maschera di indifferenza, vivere protetti dal rischio del coinvolgimento. Ma è una protezione che costa cara: il prezzo è l’impoverimento dell’anima.

La tristezza, come la felicità, è parte del movimento della vita. Rifiutarla significa rifiutare se stessi. L’uomo che non sa essere né felice né triste è un uomo che ha scelto l’ombra, che ha abdicato alla propria umanità. È un essere che non partecipa più, che guarda il mondo come se non gli appartenesse.

Eppure, come suggerisce Mancinelli, basta una scintilla — un ricordo, un gesto, una parola — per riaccendere quella capacità di sentire. Perché in ogni essere umano, anche nel più apatico, resta la possibilità di ritrovare il proprio cuore, di riconoscersi nel dolore e nella gioia.

«Nessuno è più triste dell’uomo che non sa essere né felice né triste» non è solo un’osservazione psicologica: è un monito etico ed esistenziale. Laura Mancinelli ci ricorda che la felicità non è una condizione stabile, ma un equilibrio fragile tra contrasti. Solo chi accetta di attraversare la tristezza può scoprire la pienezza della vita.

In un’epoca che teme le emozioni e celebra la neutralità, la sua voce risuona come un invito alla riconquista del sentire: accogliere le proprie lacrime e i propri sorrisi, senza paura. Perché la vera tristezza — quella che toglie senso e colore al mondo — nasce solo quando smettiamo di provare qualcosa. E in quel momento, più che infelici, diventiamo invisibili a noi stessi.

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