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Una frase di Ken Follett sul valore della nostra fiducia

Leggiamo assieme questa citazione di Ken Follett in cui si riflette sul significato e sul valore della fiducia e su quanto sia nocivo il tradimento.

Nel romanzo I giorni dell’eternità, Ken Follett ( 5 giugno 1959) ci consegna una riflessione di sorprendente profondità etica e psicologica. La citazione sopra riportata non è solo un momento di introspezione di un personaggio: è una dichiarazione sull’essenza della parola data e sul valore morale che essa possiede per l’essere umano. Promettere, nel mondo di Follett, non è un atto leggero, né una semplice formalità sociale: è un vincolo esistenziale, una pietra angolare dell’identità personale. Tradire una promessa, secondo l’autore, significa compromettere la propria integrità al punto da infliggersi una ferita interiore permanente — una mutilazione dell’anima.

“Una persona che tradisce una promessa tradisce se stessa. È come perdere un dito. È peggio che restare paralizzati, che è un fatto puramente fisico. Una persona che non tiene fede alle proprie promesse ha un animo mutilato.”

La promessa come fondamento dell’identità, per Ken Follett

Nel pensiero di Ken Follett, la promessa non è solo un impegno verso un altro, ma un atto che ci definisce. Quando promettiamo qualcosa, assumiamo su di noi una responsabilità che ci lega, nel tempo, al nostro stesso valore. Tenere fede a quella promessa equivale a riconoscere chi siamo, a confermare la nostra coerenza interiore, la nostra capacità di essere affidabili non solo agli occhi degli altri, ma anche ai nostri.

Chi non rispetta una promessa, dice l’autore, “tradisce se stessa”. Non c’è bisogno di un giudice esterno, né di una punizione sociale: la sanzione è interiore, e molto più profonda. È un tradimento della propria essenza, un atto che corrode l’autenticità della persona. Per Ken Follett, la parola data non è negoziabile. È, nella sua visione, ciò che distingue un essere umano dotato di valore da uno che ha smarrito la propria direzione.

Il paragone con la perdita di un dito è eloquente. Non si tratta solo di una metafora visiva, ma di una rappresentazione concreta della perdita: qualcosa che non può più essere recuperato, che cambia per sempre la forma della persona. Ma l’autore va oltre: afferma che il tradimento della promessa è “peggio che restare paralizzati”, perché la paralisi è un “fatto puramente fisico”, mentre il venir meno alla parola data è un danno che si imprime sull’anima.

Questa idea ci conduce a un confronto tra sofferenza fisica e sofferenza morale, una distinzione che ha attraversato secoli di pensiero filosofico e religioso. Per Ken Follett, è chiaro che il danno spirituale ha un peso maggiore. Un corpo può essere limitato, ma uno spirito coerente resta integro. Viceversa, un corpo sano che nasconde un animo incoerente è, in fondo, una forma di menzogna vivente. Il male morale — come già affermavano Socrate e poi Kierkegaard — è sempre peggio del male fisico, perché disgrega l’unità profonda dell’individuo.

La promessa come legame sociale

Oltre all’aspetto individuale, la promessa ha anche un valore sociale e collettivo. Le società si fondano su un intreccio di fiducia: tra cittadini, tra governanti e governati, tra partner, amici, colleghi. Ogni promessa mantenuta rafforza il tessuto del vivere comune; ogni promessa infranta lo lacera. Quando un individuo viene meno alla parola data, mina la credibilità dell’intero sistema delle relazioni umane.

Questo concetto è particolarmente importante nel contesto narrativo di Ken Follett, i cui romanzi storici ruotano spesso attorno a epoche di crisi morale e sociale, come la guerra fredda, i conflitti civili, o le lotte per i diritti civili. In questi scenari, la parola data — o mancata — può cambiare il destino di una nazione, così come di una singola esistenza. Il rispetto delle promesse diventa, allora, un atto di resistenza morale.

La visione espressa da Follett è anche una riflessione sulla libertà. Nessuno ci obbliga a promettere: lo facciamo di nostra volontà. Ma nel momento in cui decidiamo di farlo, ci assumiamo una responsabilità che ci trascende. È proprio la libertà, paradossalmente, che genera l’obbligo morale. E infrangere una promessa significa abusare della libertà, trasformarla in arbitrio.

Questa tensione tra libertà e responsabilità è ciò che rende il rispetto delle promesse un atto umano profondo, non una semplice convenzione sociale. È un modo per confermare, giorno dopo giorno, la propria appartenenza al genere umano nella sua forma più nobile: quella capace di dare senso alla parola, di rispettare la fiducia, di vivere con integrità.

La citazione di Ken Follett ci costringe a guardarci dentro. Ci ricorda che, in un’epoca in cui le parole spesso vengono svuotate di significato, la promessa è ancora un atto sacro. Non in senso religioso, ma esistenziale. Mantenere una promessa è, forse, l’ultima forma di sacralità accessibile in un mondo secolarizzato. È l’ultimo spazio in cui la parola conserva ancora il potere di creare realtà, di unire le persone, di renderci interi.

Tradire una promessa, allora, non è solo un atto di disonestà: è una ferita che infliggiamo a noi stessi. È, come dice Ken Follett, una mutilazione. Una perdita che nessuna giustificazione o razionalizzazione potrà mai colmare del tutto. Perché, in fondo, siamo fatti anche — e soprattutto — delle parole che abbiamo scelto di onorare.

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