In questa fulminante osservazione aforistica, Karl Kraus, giornalista, scrittore e caustico critico della società viennese di inizio Novecento, ci offre una riflessione dal tono ironico ma profondo sull’ambivalenza dell’entusiasmo e sulla gestione del fallimento. Con la consueta acuta ironia, Kraus ci suggerisce che l’entusiasmo non è tanto una virtù fine a sé stessa, quanto piuttosto uno strumento, un propulsore utile a “lanciarsi” — verbo che rimanda all’idea di azione, rischio, iniziativa. Tuttavia, se questo slancio non produce risultati, se il progetto fallisce o l’impeto non trova sbocco, subentra la delusione. E, a quel punto, si può “sfruttare” anche questa seconda condizione per trovare una forma di consolazione morale.
“L’entusiasmo serve a lanciarsi. Se non è d’aiuto, si può sfruttare la delusione con buona pace della coscienza.”
L’aforisma si articola così su due poli: entusiasmo e delusione, entrambi concepiti non come semplici stati d’animo, ma come risorse da utilizzare, fasi del percorso esistenziale che possono ugualmente concorrere alla costruzione dell’identità individuale. L’intelligenza dell’aforisma risiede proprio in questa flessibilità: Kraus ci invita a non fossilizzarci su un unico ideale di riuscita, ma a rivalutare anche il fallimento come esperienza legittima e addirittura utile.
Karl Kraus: l’entusiasmo come slancio e rischio
Nel primo segmento dell’aforisma, l’entusiasmo appare come la forza motrice dell’azione. È l’energia iniziale che permette il “lancio”, termine che evoca l’idea di un corpo che si stacca da terra per avventurarsi in aria — un’immagine dinamica, instabile, ma potenzialmente vincente. L’entusiasmo in questo senso si configura come un’illusione necessaria: è lo slancio vitale che ci spinge a iniziare progetti, a credere in possibilità non ancora concretizzate.
Per Kraus, che visse e scrisse in un’epoca segnata dalle contraddizioni dell’Impero austro-ungarico, dal crollo delle certezze borghesi e dall’irrompere di ideologie spesso folli e distruttive, l’entusiasmo non è privo di ambiguità. È una forza potente, sì, ma anche ingenua. È il carburante delle utopie, delle passioni artistiche, dei grandi ideali politici, ma anche delle illusioni individuali e collettive. L’entusiasmo, insomma, è necessario per agire, ma è anche pericolosamente instabile.
La seconda parte dell’aforisma introduce il suo rovescio: la delusione. Kraus, però, non la presenta in termini esclusivamente negativi. Anzi, la delusione può essere “sfruttata” — parola inaspettata che ribalta l’assunto comune secondo cui fallire sarebbe soltanto una perdita. Il soggetto del fallimento, dice Kraus, può perfino assolversi moralmente (“con buona pace della coscienza”), purché riesca a reinterpretare la delusione come esperienza. È qui che emerge la vena satirica di Kraus: egli non celebra né l’entusiasmo cieco né l’autocommiserazione, ma suggerisce che in entrambi i casi l’individuo cerca di darsi ragione, di giustificare le proprie scelte agli occhi della propria coscienza.
In un certo senso, si può leggere questo passaggio come una parodia del bisogno umano di autogiustificazione. Quando l’entusiasmo non basta e falliamo, la delusione viene trasformata in rifugio morale: possiamo dire a noi stessi che almeno ci abbiamo provato, che la colpa non è nostra, che il mondo è ingiusto. E questa razionalizzazione, per quanto parziale o autoindulgente, offre un tipo di pace, magari non del tutto autentica, ma sufficiente a continuare a vivere.
Ironia e lucidità: la visione krausiana
Come spesso accade nella scrittura aforistica di Kraus, la sua affermazione si colloca su un crinale ambiguo tra provocazione e verità. L’ironia, qui, è un velo trasparente che non copre, ma rivela. In fondo, Kraus ci sta dicendo che l’essere umano è profondamente opportunista nei confronti delle proprie emozioni: utilizza l’entusiasmo quando vuole partire, e la delusione quando ha bisogno di una scusa per giustificare l’insuccesso.
Non c’è cinismo puro in questa osservazione, ma piuttosto un realismo disincantato. Kraus non ci invita a rifiutare l’entusiasmo, né a crogiolarci nella delusione: ci invita a prenderne coscienza. La sua è una pedagogia della consapevolezza, non della rassegnazione. In un mondo dominato da ideologie totalizzanti, da slanci irrazionali e da fallimenti epocali (come le guerre mondiali che segnano la sua epoca), Kraus esorta l’individuo a riconoscere la natura strumentale delle proprie emozioni.
A distanza di oltre un secolo, questa riflessione mantiene una sorprendente attualità. Viviamo in un tempo in cui l’entusiasmo è spesso ostentato come valore assoluto: nelle carriere, nei progetti personali, nella comunicazione social, l’entusiasmo è richiesto, premiato, performato. Ma cosa accade quando non basta? Quando il “lancio” non va a segno?
Qui torna utile la lezione di Kraus: anche la delusione può essere “sfruttata”, non per mentire a sé stessi, ma per rielaborare l’esperienza, per trarne un insegnamento, per non restare paralizzati. In un’epoca che teme il fallimento quasi quanto la morte, Kraus ci ricorda che fallire non è il contrario di agire, ma una sua possibile conclusione — e che anche da lì si può ripartire, con onestà e con “buona pace della coscienza”.
In definitiva, l’aforisma ci restituisce una visione della vita come processo fluido, dove successo e insuccesso non sono entità fisse ma fasi mobili, interscambiabili, e in qualche modo entrambe necessarie. È forse questa la più sottile delle verità krausiane: che possiamo imparare a vivere non solo nonostante, ma grazie alla delusione.