Nel saggio Terra bruciata, Jonathan Crary si muove su un crinale inquietante ma necessario: quello della disillusione. La sua affermazione — “Qualsiasi sentiero possibile diretto verso un pianeta vivibile sarà molto più doloroso di quanto molti riconoscano o saranno disposti ad ammettere apertamente” — introduce un’analisi radicale, scomoda e urgente del nostro presente. In poche righe, Crary denuncia il sistema economico dominante, il potere delle tecnologie digitali, l’imbarbarimento sociale e la rottura del legame con il vivente. Ma non si limita a un elenco di sciagure: indica anche una direzione. Una direzione dolorosa, ma potenzialmente rigenerativa.
Qualsiasi sentiero possibile diretto verso un pianeta vivibile sarà molto più doloroso di quanto molti riconoscano o saranno disposti ad ammettere apertamente. Una fase cruciale della lotta degli anni a venire per una società equa consiste nella creazione di assetti sociali e personali che abbandonino il predominio del mercato e del denaro sulle nostre vite associate.
Ciò significa respingere il nostro isolamento digitale, rivendicare il tempo in quanto tempo vissuto, riscoprire i bisogni collettivi e resistere ai livelli montanti di imbarbarimento, inclusi la crudeltà e l’odio che traboccano dall’online. Non meno importante è il compito di riconnettersi umilmente con ciò che resta di un mondo pieno di altre specie e forme di vita. Vi sono innumerevoli modi in cui ciò può avvenire e, seppur in modo silenzioso, gruppi e comunità in ogni parte del pianeta stanno già portando avanti alcuni di questi tentativi riparativi.
Il punto di partenza è un’ammissione di realtà: non esiste una via d’uscita facile dal disastro ecologico, sociale e antropologico che abbiamo costruito. Le promesse di una “transizione dolce” verso un mondo sostenibile, le soluzioni tecnologiche a basso impatto, le narrazioni ottimistiche su una green economy che possa convivere con il consumismo sono, secondo Crary, illusioni che servono a rinviare il momento della resa dei conti. Il cambiamento vero, quello che porta verso un pianeta vivibile e una società equa, implicherà dolore, rinunce, ridefinizioni radicali dei nostri stili di vita, delle nostre relazioni e delle nostre priorità.
Jonathan Crary e il suo disperato appello alla disconnessione
Un passaggio fondamentale di questa trasformazione consiste — come scrive Crary — “nella creazione di assetti sociali e personali che abbandonino il predominio del mercato e del denaro sulle nostre vite associate”. In un mondo dove ogni dimensione dell’esistenza — il tempo, le emozioni, i corpi, le relazioni — è soggetta alla logica del profitto, la libertà non può che passare per una diserzione. Non si tratta semplicemente di cambiare sistema economico, ma di ricostruire un altro immaginario, un altro modo di pensare l’umano.
Le nostre vite sono incastrate in una gabbia invisibile: la monetizzazione del tempo, l’ipercompetizione, la logica dell’efficienza, la digitalizzazione delle emozioni e delle relazioni. Tutto è misurato, valutato, venduto. Uscire da questo meccanismo non è indolore, perché significa rifiutare abitudini interiorizzate, aspettative di benessere individuale, automatismi culturali. Ma è proprio lì che si apre lo spazio per una vita nuova: nel rompere l’incantesimo del denaro come unico mediatore del senso.
Contro l’isolamento digitale: la rivendicazione del tempo vissuto
La denuncia di Crary colpisce anche il nostro presente digitale, che egli descrive come un isolamento. Nonostante la retorica della connessione, il mondo online genera spesso solitudine, frammentazione, disumanizzazione. La rete si è trasformata in una trappola dove ogni interazione è analizzata, mercificata, trasformata in profitto per pochi. Ma ciò che è ancora più grave, è che questo isolamento produce una desertificazione affettiva: perdiamo la capacità di ascoltare, di condividere silenzi, di vivere insieme.
Crary propone di “rivendicare il tempo in quanto tempo vissuto”. È una formula densa, quasi poetica. Vuol dire opporsi al tempo come produttività, come consumo, come accelerazione forzata. Significa ridare valore ai ritmi lenti, ai momenti improduttivi, alla presenza reale e incarnata. Riscoprire il tempo come spazio comune, in cui avviene il contatto umano, l’empatia, il legame.
Riscoprire i bisogni collettivi e resistere alla barbarie
Il capitalismo digitale non solo isola: alimenta odio. Le piattaforme online sono spesso teatro di crudeltà, di disumanizzazione, di imbarbarimento. In assenza di vincoli reali e di responsabilità condivise, l’individuo si sfoga, si vendica, si esprime in forme distruttive. L’anonimato, la velocità, la polarizzazione incentivata dagli algoritmi creano un clima in cui la violenza verbale diventa norma.
Crary invita a resistere a questa barbarie montante, che non è solo un fenomeno culturale ma un prodotto strutturale del nostro modello di comunicazione e di società. E per farlo occorre riscoprire i bisogni collettivi: la cura, la solidarietà, il dialogo, la responsabilità condivisa. La comunità, in questo senso, non è una nostalgia del passato, ma una necessità per il futuro.
Riconnettersi con l’ambiente circostante
Infine, Crary scrive che “non meno importante è il compito di riconnettersi umilmente con ciò che resta di un mondo pieno di altre specie e forme di vita”. Qui l’autore introduce un orizzonte ecologico profondo, che non riguarda solo la salvaguardia ambientale, ma il senso stesso del nostro stare al mondo. L’essere umano non è il padrone della Terra, ma una specie tra le specie. Riconnettersi con il vivente implica un atteggiamento di umiltà, di apertura, di ascolto verso ciò che non parla il nostro linguaggio ma che ha un valore in sé.
Crary non offre soluzioni precostituite, ma afferma che “gruppi e comunità in ogni parte del pianeta stanno già portando avanti alcuni di questi tentativi riparativi”. Questo è forse l’aspetto più importante del suo messaggio: la speranza non è un’illusione, ma una pratica. Nelle forme silenziose e quotidiane della resistenza — nei gesti di cura, nella creazione di spazi comunitari, nella salvaguardia del territorio, nella decrescita felice, nell’arte che denuncia e costruisce — risiede già il seme del mondo a venire.
La citazione di Jonathan Crary ci costringe a guardare in faccia una verità scomoda: il futuro non sarà facile, e il cambiamento necessario sarà doloroso. Ma in questo dolore può risiedere una possibilità: quella di rifondare le relazioni umane su basi non mercantili, di uscire dall’isolamento digitale, di riscoprire una vita collettiva e di riallacciare il legame con il vivente. È un compito immenso, ma già in atto, e il suo valore risiede proprio nella capacità di risvegliare ciò che di più umano ci resta.