Una frase di Han Kang su un’alimentazione etica

4 Dicembre 2025

Leggiamo assieme questa citazione di Han Kang, premio Nobel per la Letteratura 2024, tratta dal suo libro "La vegetariana".

Una frase di Han Kang su un'alimentazione etica

La citazione tratta da La vegetariana di Han Kang«Un grumo formato da urla e gemiti aggrovigliati… cocciutamente abbarbicate alle mie viscere» — rappresenta uno dei passaggi più intensi, disturbanti e significativi dell’intero romanzo. In queste righe si concentra la poetica dell’autrice: una scrittura che attraversa il corpo, ne registra le convulsioni e le ribellioni, e nello stesso tempo tenta di dare voce a un disagio esistenziale che non può essere espresso con il linguaggio ordinario.

La protagonista, Yeong-hye, percepisce dentro di sé un accumulo di dolore: non solo il suo, ma quello di tutte le vite animali che ha consumato. La carne ingerita diventa un’eredità violenta che si stratifica nelle sue viscere, un grumo di colpa che nessun processo metabolico può sciogliere.

Un grumo formato da urla e gemiti aggrovigliati, intrecciati fra loro uno strato dopo l’altro. È per la carne. Ho mangiato troppa carne. Le vite degli animali che ho divorato si sono tutte piantate lì. Il sangue e la carne, tutti quei corpi macellati sono sparpagliati in ogni angolo del mio organismo, e anche se i resti fisici sono stati espulsi, quelle vite sono ancora cocciutamente abbarbicate alle mie viscere.

Il corpo come archivio del dolore, per Han Kang

Nel romanzo di Han Kang, il corpo non è mai uno strumento neutro o una semplice superficie narrativa. È piuttosto un archivio: un luogo che trattiene, strato dopo strato, le esperienze traumatiche, i gesti subiti, le violenze taciute, e perfino la memoria delle altre vite che ha divorato. Quando la protagonista parla di «urla e gemiti aggrovigliati» non si riferisce soltanto agli animali uccisi; quelle urla diventano un simbolo più ampio della condizione umana, in cui la sofferenza — quella personale e quella altrui — tende a sovrapporsi, a confondersi, a diventare materia vivente.

L’idea che il corpo trattenga ciò che ingeriamo non è nuova nella cultura letteraria e filosofica, ma Han Kang la porta a un’estremizzazione metaforica e poetica: la carne fisica si trasforma in carne simbolica, e questa carne simbolica diventa un peso psicologico che rompe l’equilibrio della protagonista. L’alimentazione diventa un gesto carico di implicazioni morali e spirituali.

La carne come colpa e come violenza interiorizzata

La frase «Ho mangiato troppa carne» non va letta in senso dietetico, ma esistenziale. Qui la carne rappresenta la violenza invisibile che permea la vita quotidiana: la violenza degli uomini sugli animali, certo, ma anche — e forse soprattutto — la violenza degli uomini sugli altri uomini, e in particolare quella del patriarcato sul corpo femminile. Il romanzo infatti si apre con un sogno che scuote profondamente Yeong-hye: un sogno fatto di sangue, macelli, viscere e corpi straziati. È l’irruzione dell’inconscio che squarcia la superficie della vita ordinaria.

Questa immagine del grumo — una massa che soffoca, che impedisce, che cresce da sola — suggerisce una forma di colpa collettiva che diventa intollerabile. Yeong-hye sente che la carne degli animali è entrata in lei non soltanto come nutrimento, ma come residuo etico: un resto che non può essere smaltito perché appartiene al dominio dell’esperienza morale, non a quello del metabolismo biologico.

Il rifiuto della carne come atto di liberazione

Nel romanzo, la decisione di Yeong-hye di diventare vegetariana non è dettata da una scelta razionale o da una convinzione ideologica: è un’esigenza interiore, quasi mistica. Diventare vegetariana significa smettere di partecipare al ciclo della violenza. Il rifiuto della carne è anche un rifiuto della carne intesa come sessualità, come esposizione, come strumento di controllo. È un gesto di sottrazione totale, che porta la protagonista verso un progressivo allontanamento dal mondo umano.

La citazione evidenzia dunque il momento limite in cui la carne ingerita diventa metafora della carne che la società vuole imporre alla donna: la carne come corpo da possedere, da manipolare, da piegare a un ruolo.

Corpi macellati e confini dell’identità

La frase «quelle vite sono ancora cocciutamente abbarbicate alle mie viscere» introduce un’altra riflessione centrale: la difficoltà di distinguere i confini del sé quando si entra in contatto con altre vite. Yeong-hye non sente di poter espellere completamente ciò che ha assorbito; la sua identità è contaminata, invasa, colonizzata da corpi altri. È come se ciò che è stato ucciso altrove continuasse a vivere dentro di lei, in una forma fantasmica e disturbante.

In questo senso, Han Kang mette in scena una percezione dell’identità come porosa e vulnerabile: non un nucleo definito, ma un insieme di stratificazioni, proprio come il grumo evocato nella citazione. Le urla degli animali diventano le urla interiori della protagonista: non c’è più distinzione netta tra il mondo esterno e quello interno.

Un linguaggio che attraversa il corpo

La potenza di questo passo risiede anche nella scelta delle parole: grumo, urla, gemiti, sparpagliati, abbarbicate. Sono termini fisici, concreti, che evocano immagini sensoriali forti. La scrittura di Han Kang non si limita a descrivere; costringe il lettore a percepire, quasi a sentire sulla pelle e nelle viscere ciò che la protagonista prova. È una scrittura viscerale, visceralmente etica, che interroga il rapporto tra corporeità e identità, tra nutrimento e violenza, tra vita e morte.

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