I versi di Goliarda Sapienza per celebrare la Festa del Papà

19 Marzo 2025

Leggiamo i versi fatti d'amore, di vita e di terra, che Goliarda Sapienza dedica all'avvocato, sindacalista e politico Giuseppe Sapienza, suo padre.

I versi di Goliarda Sapienza per celebrare la Festa del Papà

Goliarda Sapienza, scrittrice e poetessa dalla voce intensa e originale, ha lasciato un’eredità letteraria profonda e viscerale. Nei versi della sua poesia “A mio padre”, contenuta nella raccolta “Ancestrale“, emerge un affetto profondo per la figura paterna, Giuseppe Sapienza, ma anche un’elaborazione del dolore, della memoria e del senso di appartenenza. Il passo in esame offre una riflessione sulla forza del riso, sulle sue radici e sulla sua capacità di resistere nelle situazioni più difficili.

M’insegnasti quel ridere che sboccia
come fiore di sciara dal selciato
e cresce nel calore dei cortil
s’avviluppa alla notte su pei balcon
dove i cigni sgomenti delle tende
si rinserrano lividi a celare
mani lisce dall’unghie levigate.

Goliarda Sapienza e il legame col padre Giuseppe Sapienza

“M’insegnasti quel ridere che sboccia / come fiore di sciara dal selciato”

La poesia inizia con un’immagine potente: il riso è paragonato a un fiore che nasce dalla “sciara”, termine siciliano che indica la lava raffreddata, simbolo di terra arida e dura. La metafora suggerisce che il riso, insegnato dal padre, non è un riso ingenuo o spensierato, ma qualcosa di profondo e resistente, capace di germogliare anche nelle condizioni più difficili. È una risata che sa di sopravvivenza, che si fa strada nel dolore e nelle avversità, trasformandole in forza.

La scelta lessicale di Goliarda Sapienza è fortemente radicata nella sua terra, la Sicilia, dove la durezza della natura si accompagna alla capacità di resistere. La figura del padre si configura così come un maestro di vita, capace di trasmettere un’arte del vivere che passa attraverso il riso, inteso non come leggerezza, ma come strumento di resilienza.

L’espansione del riso nello spazio familiare e urbano

“E cresce nel calore dei cortil / s’avviluppa alla notte su pei balcon”

Il riso, dopo essere sbocciato, cresce nei cortili, si diffonde negli spazi dell’infanzia e della comunità. Il cortile è un luogo simbolico, rappresenta l’incontro, la vita quotidiana condivisa, la dimensione familiare e popolare. Qui il riso si alimenta del calore umano, si sviluppa nella vita di relazione e diventa un tratto distintivo dell’identità dell’io poetico.

Ma il riso non si ferma, si “avviluppa alla notte”, si insinua nei balconi, negli spazi privati e intimi. La notte, simbolo di mistero, di segreti e di riflessione interiore, accoglie questa risata che non si spegne, ma continua a espandersi, abbracciando la città e i suoi silenzi. La risata diventa quindi un ponte tra la dimensione pubblica e quella privata, tra la collettività e la solitudine.

Il contrasto tra riso e repressione

“Dove i cigni sgomenti delle tende / si rinserrano lividi a celare / mani lisce dall’unghie levigate.”

La poesia si chiude con un’immagine ambigua e inquietante. Le tende, paragonate a cigni sgomenti, si chiudono per nascondere qualcosa. Il contrasto tra il riso che si espande e questa chiusura netta suggerisce un conflitto tra libertà ed oppressione. Il riso, simbolo di vita, di espressione spontanea, si scontra con un mondo che vuole nascondere, celare. Le “mani lisce dall’unghie levigate” potrebbero alludere a una classe sociale che si nasconde dietro una facciata di eleganza e perfezione, reprimendo il riso spontaneo e genuino della gente comune.

L’uso della metafora dei cigni conferisce un’aura di eleganza e fragilità alla scena, ma il loro essere “sgomenti” introduce un senso di inquietudine. Il riso, che nasce dalla sciara e cresce nei cortili, sembra quasi rappresentare una minaccia per chi preferisce il silenzio e l’apparenza.

Un’eredità poetica e personale

Questi versi di Goliarda Sapienza raccontano molto più di un semplice insegnamento paterno. Il riso diventa un’eredità culturale e affettiva, un dono che permette di affrontare la durezza della vita senza perdere la capacità di gioire. È un riso che sfida il dolore, che si oppone alla repressione e che diventa segno distintivo di un’identità forte e resistente.

Nella poetica di Sapienza, la Sicilia è sempre presente, non solo come ambientazione, ma come matrice di un’identità complessa, fatta di contraddizioni, di passioni, di lotta. Il padre, figura centrale in questa poesia, appare come un simbolo di una trasmissione valoriale profonda: non solo l’amore, ma anche la capacità di affrontare la vita con forza e ironia.

La poesia “A mio padre” di Goliarda Sapienza è un inno all’eredità emotiva e culturale trasmessa dai genitori ai figli. Il riso, inteso come strumento di resistenza e libertà, si diffonde nello spazio della vita quotidiana, opponendosi al silenzio imposto da chi preferisce celare e nascondere. In questi versi, la poetessa ci offre una riflessione intensa sul valore delle emozioni autentiche, sulla lotta tra espressione e repressione, e sull’importanza di conservare una voce sincera in un mondo che spesso impone il silenzio.

Attraverso immagini vivide e potenti, Sapienza ci lascia un messaggio universale: il riso è un atto di ribellione, un segno di vita, una testimonianza di amore che, una volta ricevuta, non smette mai di esistere.

Ma, vale la pena leggere l’intera poesia che è una dichiarazione d’amore verso il proprio padre che commuove e inorgoglisce a ogni lettura:

A mio padre

M’insegnasti un amore senza dio
un amore difficile terreno
per le donne e i carusi del quartiere
nero grumo di lava sotto il sole.

M’insegnasti un amore senza dio
un amore carnale pieno d’odio
per i vecchi corrosi dalla sete
contro il muro buttati tra gli sputi.

M’insegnasti a discernere l’afrore
della fame rappreso nei capelli
dell’amica di banco a non temere
il nitore sprezzante del suo basso.

M’insegnasti quel ridere che sboccia
come fiore di sciara dal selciato
e cresce nel calore dei cortili
s’avviluppa alla notte su pei balconi
dove i cigni sgomenti delle tende
si rinserrano lividi a celare
mani lisce dall’unghie levigate.

Mi portasti per strade per vanedde
a fatica tagliate nella lava
fra l’insonne delirio di carretti
e banchi e palchi issati per l’agonia
di anguille laminate boccheggianti
fra i garofani accesi dalle grida
di coltelli in scommesse balenanti
nel verde insanguinato dei meloni.

Per anni quel tuo ridere di lama
sussultante fra i denti mi protesse
dal terrore appostato nei cantoni
con scarpini attillati di mafiosi
in attesa impaziente sbriciolata
di cicche morse dal tacco di vernice.

Per anni quel tuo passo senza rimorsi
mi protesse dai vicoli più scuri
dove ammiccano donne traballanti
nel lucore verdino dei lumini
fra i seni rosei posati sul vassoio
e le tenaglie infuocate che la santa
sogguarda col suo petto mutilato.

Per anni nelle notti smerigliate
dalla pomice rossa di scirocco
leggevamo vicini sul balcone
in attesa dell’eco di frescura
che in un grido si strappa dalla calura.

Dalle mani dell’uomo nelle mie mani
travasavi le ceusa “succo di bosco”
stillanti miele nero sul piattino
di pampini intrecciato “in modo fino”.

In modo fino il tuo viso mi rideva
nelle palme scottate da quel gelo.
Nel gelo acuminato di libeccio
fra i portici come oboe suonati
dal fiato salso del mare mi guidavi
nell’antro trasudante di passione.

La tua fronte fendendo l’aria appannata
dall’ansia dei picciotti m’indicava
fra la folla dei turchi e i paladini
la bellissima Angelica fremente
di bagliori di latta e nel frastuono
di ferrame vociante quel tuo riso
luceva attorcigliato sul clamore
alla spada d’Orlando sguainata
in difesa del giusto e del meschino.

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